di Marco Bagnoli
dicembre 2010
Ventitré anni dura la vita di Mario Nannini. 24 Ottobre 1918. Grande Guerra. Muore di spagnola, nel suo letto in via del Can Bianco. Non vede poi molto del mondo intorno, eppure lo ritrae. I campi e i contadini e la zia Ester, le colline. Le strade, i vecchi. Non sa niente di tutto quello che sarà, tutta la storia che è stata. Mario pittore, Nannini futurista. Forse lo immagina, ingiallito e sciupato come è oggi, appiccicato nei suoi quadri come pezzi di giornali. Era fine, signorile, quasi bello e innamorato – dice un amico – della pittura. Tra il primo ed il secondo decennio le riviste di Pistoia, Firenze, Roma. La discussione con tutti e tra tutti, amici e no: un estro inventivo che rischia l’accademia.
Nasce a Buriano, da piccolo è a Pistoia, scuole tecniche, frequenta il Regio istituto per la tessitura e tintoria di Prato. A Prato conosce Emilio Notte, pittore pugliese, è suo allievo. Espone in varie collettive a Firenze e Pistoia. I suoi vecchi ritratti a carboncino; le architetture traballanti delle sue pitture. Scomposizione di figura. Sintesi di paese. Strada più casa. La Nazione. La zia di profilo. Piero Sabelli.
Piero Sabelli, l’amico volontario ufficiale del Genio caduto sul Vodice nel ‘17. I futuristi della prima ora, i firmatari di manifesti, non si rapportano tutti alla stessa maniera nei confronti della questione guerra. E nelle sue lettere Mario Nannini non mostra mai un atteggiamento di rifiuto, anche se la volontà di essere aggregato al 3° Genio può essere motivata dalla semplice amicizia. Sullo sfondo, seminascosto da un aereo in volo, traccia PAX. Pittore invisibile, futurista in incognito, poco avvolto dalle frange dell’avanguardia. Lui che nel ‘16 ancora evoca Cezanne in una Natura morta con brocca d’acqua nella quale incolla un ritaglio di giornale, come un timbro d’ingresso sull’adesso. Che poi era il futuro.