di Carlo Rossetti
dicembre 2009
Era la fine degli anni Settanta quando una sera, riuniti a un tavolo della “Bussola da Gino”, alcuni amici dettero vita al Premio “La Lunetta d’argento”. A quel tavolo sedeva solitamente una comitiva composta da Alfredo Fabbri, accompagnato dall’inseparabile Bino Masi, da Millo Giannini, da chi scrive e da Gino stesso, il quale per l’occasione si riconosceva più nella veste di avventore che in quella di ristoratore. Infatti dopo che il grosso della clientela se ne era andato, raggiungeva il tavolo, lasciando alla moglie Rosalba e all’Iride il compito di servire i ritardatari. La conversazione era quanto mai leggera, soprattutto legata all’arte che, inevitabilmente, la presenza di Alfredo Fabbri suggeriva. Non ricordo di avere mai assistito a una discussione sulla politica, non tanto per indifferenza nei confronti di problemi importanti, quanto perché non avremmo saputo cosa dire. Non sempre l’incontro era il pretesto per mangiare insieme, ma se Gino, cenando in ritardo come gli attori dopo lo spettacolo, sedendosi al nostro tavolo ci passava vicino con un piatto di squisite pappardelle sul fagiano, non ci restava che seguire il suggerimento dell’olfatto e passare all’ordinazione, anche se già avevamo cenato a casa. Quindi un mezzo bicchiere di rosso di Capezzana e a quel punto si cambiava registro.
Sgombrata la sala dagli ultimi clienti, tolto i residui delle cene dai tavoli e rimesso le sedie al suo posto, aveva inizio il nostro repertorio musicale. Presa una chitarra che era sempre a portata di mano e che nessuno di noi sapeva suonare, ma che serviva per dare una certa parvenza d’orchestra e per il ritmo, cantavamo tutto ciò che lì per lì veniva in mente. La nostra forza era costituita dal fatto che eravamo esecutori e ascoltatori insieme, perciò sicuri di soddisfarci nell’uno e nell’altro ruolo. I pezzi maggiormente eseguiti del repertorio, legati a una nostra hit-parade sentimentale, erano le canzoni napoletane, alle quali aggiungevamo gli immancabili brani “Di fitti vel, s’ammanta il ciel…” e “ La luna ci invita a sognar…” , tratti da celebri operette, adatti alle nostre corde vocali appena lubrificate con il vino.
Una sera, dopo aver dato “asilo” a una bottiglia di Chianti, fummo improvvisamente ispirati dal folclore andaluso. Nacchere e chitarra alla mano e via con un flamenco. A quel punto Gino, con un salto di cui neppure lui si rese conto, fu su un tavolo e improvvisò la tipica danza spagnola , che forse da un punto di vista stilistico lasciava a desiderare , ma che, vuoi per il ticchettìo dei tacchi e per qualche azzeccato gesto plastico, come la testa inclinata verso il basso, il volto tormentato e il collo “sottosterzo”, aveva una sua suggestione. Se si considerano poi le “lamentazioni”, proprie del flamenco, che noi aggiungemmo alla danza come tante partorienti con le doglie, più il battere delle mani e qualche olé!, si può dire di avere avuto l’impressione di trovarci in un qualsiasi locale caratteristico spagnolo. O forse sarà stato il vino a darci questa convinzione. Ecco, in un clima come questo, da trattoria di Trastevere, perché per noi “La Bussola” era l’equivalente, nacque, ripeto, una sera, il Premio “La Lunetta d’argento”, che si prefiggeva di premiare annualmente quelle personalità del mondo della cultura e dell’arte, meritevoli del riconoscimento. La pergamena sulla quale venne scritto l’atto costitutivo, senza ufficialità né suggello notarile, riportava fra l’altro <<animati da spirito rinascimentale abbiamo deciso di riunire un gruppo di amici con lo scopo di ritrovarci e dare alimento non solo al corpo ma anche allo spirito>>. A firmare il documento, oltre ai nomi detti, vi furono successivamente Athos Capecchi, Luigi Vangucci, Edoardo Bianchini, Vinicio Coveri, Rosanna Pestelli, Alvaro Petracchi, Luciano Zucconi, Siliano Carlesi, Giancarlo Zampini e altri. Il premio può far pensare subito alla luna, Musa dei poeti e silenziosa complice degli innamorati. Invece “la Lunetta”, si ispirava all’ago a forma di mezzaluna, che usano i nostri tappezzieri per cucire la stoffa. Intendevamo così, oltre alla ricerca di un nome poetico, rappresentare la nostra cittadina attraverso il lavoro che la caratterizza. L’idea suggerita da Laura Giannini, fu subito adottata per il suo significato.
Il primo personaggio al quale venne attribuito il premio fu il Maestro Riccardo Muti, e credo che non avremmo potuto iniziare meglio. Si deve alle conoscenze e all’interessamento del Dr Athos Capecchi, se riuscimmo ad avere come primo ospite una personalità del genere. A lui seguirono altri esponenti del mondo artistico – culturale, come Gina Lagorio, Mario Luzi, Ugo Capocchini, Geno Pampaloni, Bruno Saetti, Agenore Fabbri, i concittadini Vinicio Gai e Lando Bartolini, Pamela Villoresi e Alessandro Benvenuti, fino a quello attribuito a Alfredo Fabbri, che del premio era stato l’ideatore e anche il maggiore animatore. I nomi appena elencati sono solo una parte di quelli passati dalla Bussola. Infatti la serata di premiazione aveva luogo nella trattoria al termine di una cena. Alla prima edizione, nel maggio del 1978, ricordo la sorpresa e lo stupore del Maestro Muti entrando in trattoria. La sala in cui era stato disposto un tavolo a ferro di cavallo, da pranzo di nozze, si presentava come una vera e propria anticipazione di primavera, un inno alla stagione. Ampie ceste di ortaggi di varie specie, dai colori vistosi e vivaci, disposte un po’ ovunque, costituivano una vera e propria tavolozza, vago richiamo alle opere pittoriche del cinquecentesco Arcimboldo.
Penso che il Maestro Muti, avesse immaginato, come gli sarà accaduto più volte nell’ambito della carriera, un pranzo in cui l’apparecchiatura, con posate d’argento e bicchieri di cristallo, avrebbe anticipato il tono formale della serata e di conseguenza l’inevitabile conversazione seriosa. Niente di tutto questo invece, e perciò il suo sorriso appena accennato alla moglie, che smorzava il suo aspetto austero, testimoniò immediatamente una volta entrato, il piacere di sentirsi a suo agio, fuori dalle regole dell’ufficialità e della convenzione, e finalmente fuori, se vogliamo, anche dalle ferree imposizione della partitura musicale. Credo quindi che il suo piacere aumentasse quando Gino, senza essere intimidito dalla presenza di tale personaggio, iniziò a servire i piatti tipici della tradizione toscana con il suo fare scanzonato fuori dall’etichetta, suscitando più volte l’ilarità del Maestro e della sua sorridente consorte. Penso che Muti si sentisse proprio a casa sua, perché dopo i primi momenti di riservatezza prese parte alla conversazione con evidente piacere e molta partecipazione, non tralasciando certo di apprezzare le gustose vivande.
Non è eccessivo dire che fu una serata memorabile, di cui tutti serbiamo ancora il ricordo. Quando uscimmo a mezzanotte, anche la luna dei poeti e degli innamorati, era lassù, bianca nel cielo.