di Marco Bagnoli
giugno 2023
Il sole di fine maggio è già accecante come quello estivo. Per riprenderci da quest’abbaglio non ci resta che tornare ai colori – a quelli vividi di una giovane artista promettente, Irene Gradi.
Irene ha ventitré anni, una laurea fresca fresca di lode, e già una serie di felici esperienze nel campo dell’esposizione – ma andiamo con ordine. In famiglia nessuno aveva avuto alcuna inclinazione artistica, né musicale, né tantomeno in quello della pittura: come dire, aspettavano solo lei. Ne sanno qualcosa le pareti riccamente decorate dalla piccola Irene in tenera età, e prontamente riprese dall’imbiancata di turno. Ma disegnare sul muro è facile, poi dichiarare, sempre da bambina, che da grande si vuole fare l’accademia è tutt’un’altra cosa. È così che Irene ha frequentato il Liceo artistico a Pistoia e l’Accademia di belle arti di Firenze; a Pistoia si è specializzata nell’ambito della grafica, un settore interessante per lei, ma che per lo più si avvale della tecnologia informatica; a Firenze invece Irene ha potuto tornare a imbrattarsi di colori come le piaceva un tempo. E a imbrattare il mondo. E il mondo nel frattempo si accorge di lei: durante il terzo anno di Accademia è stata selezionata per partecipare a una mostra allestita a Firenze dalla California University. Il bello dell’Accademia, poi, è che attraverso lo studio dei vari maestri del passato ciascun allievo era libero di ricrearsi il proprio stile personale, senza imposizioni di limiti o sbarramenti accademici, appunto.
Quindi qual è lo stile di Irene? Lei, nel parlare del suo modo di lavorare, ricorda l’informalità di Pollock, ma anche il cubismo di Picasso, per risalire al colore e alla rapidità degli Impressionisti. Per essere più precisi si può dire che cerca di reinventare soggetti concreti della realtà attraverso un progressivo processo di stilizzazione e rilettura. Ama la sua Vespa e le Mini, ma predilige i soggetti della natura, quelli nei quali non si ritrova la mano dell’uomo; e questa natura diventa a sua volta una sua rappresentazione colorata, fatta da mano d’uomo – pardon, di donna. E dire che la sua tesi di laurea tracciava il percorso del “colore” bianco nel corso della storia – titolo: “Il Bianco: un’astrazione, un’idea, un concetto. L’amore platonico che nasce nel Medioevo, fino alla nostra contemporaneità.”. Il nero viene invece sempre escluso, in favore di un blu profondo. Mentre dipinge le sue grandi tele, con colori spessi e materici, dopo aver spostato il divano di casa, in attesa che sia pronto il suo studio di Quarrata, Irene ascolta musica vintage, dal Rock’n’roll di Elvis agli anni verdi del nostro Gianni Morandi. E un po’ di musica classica strumentale, perché non guasta mai.
Irene Gradi – ricordatevi questo nome! – a inizio anno ha esposto una personale presso la Maison Andreini di Pistoia, la totalità delle sue trenta tele, più alcuni schizzi di lavorazione; a cavallo dei mesi di aprile e maggio ha partecipato ad una collettiva a Lecce, la Fiera d’Arte Messapia – e sarà a breve a Milano per farsi ammirare alla galleria ArtSpace nella collettiva “Ambientarti”, a cura di Eva Amos, la giovane creatrice di eventi culturali in Italia e all’estero. I lavori di Irene sfiorano l’astrazione delle forme, ma raffigurano invece il reale, anzi, sono spesso il frutto stilizzato di concrete esperienza di vita: come le “Vespe” (foto in questo articolo), quelle con le ali stavolta, e tanto di pungiglione, che in una placida giornata di mare la colsero scoperta sulla pianta del piede, come una sorta di Achille al femminile. O come quella pittura sacra del Settecento incautamente danneggiata nel corso di spericolate manovre di rassettamento, poi celebrata nella sua “Madonna bucata”. C’è insomma della solidità nella sua arte, come ce n’è in lei – e nella sua famiglia, sempre pronta a sostenerla. Se i suoi quadri vi piacciono compratene uno, non avrete a pentirvene; oppure commissionatele voi un soggetto, magari partendo da una storia che vi ha “punto” nel vivo. E poi nel futuro l’aspettiamo sui muri qua a Quarrata, per ricolorarci un po’ l’animo dopo tanti giorni di caldo e di vento, con gli occhi stretti in un sorriso forzato, per niente benevolo.