di Carlo Rossetti
dicembre 2024
Se pensiamo al passato, specie quando non si è più giovani, è possibile che la mente compia un’operazione di selezione. Essa fa affiorare alla memoria i ricordi più gratificanti, rimuovendo nel contempo tutto il resto, per una scelta dettata dal cuore, complice la nostalgia. Sebbene il passato abbia i suoi aspetti negativi, esso è da ricordarsi come un’epoca in cui, una diversa scansione della vita, ispirata a quei valori propri del mondo rurale, semplice e autentico come il nostro, consentiva all’uomo, malgrado gli affanni quotidiani, di avere una serenità d’animo che il progresso ha voluto in cambio dell’automobile, del frigorifero, del televisore e dello stress come optional. Il rapporto umano, nel proprio svolgersi giornaliero, dava all’amicizia e alla solidarietà un profondo significato. In uno scenario come questo anche a Quarrata, come del resto in ogni altro paese, si muovevano alcune figure caratteristiche, la cui tipologia conferiva all’ambiente una nota di colore ed una sua unicità. Personaggi di una rappresentazione che ogni giorno aveva il suo divenire nel contesto paesano, e sulla quale è da tempo calato il sipario. Se per taluni di questi immancabili volti quotidiani abbiamo tracciato un piccolo profilo, ciò non è stato possibile per tutti. Almeno una volta però, vogliamo far rivivere anche gli altri, rispolverando i loro nomi, o meglio i soprannomi, con i quali il più delle volte erano conosciuti. Può darsi che alcuni rimangano sepolti nella memoria, ma quelli che citeremo basteranno a riproporci un’epoca, un ambiente, che fanno parte del nostro archivio sentimentale.
E così frugando nei ricordi escono fuori come tolti dal cappello di un prestigiatore, i nomi di Fiovo, raccoglitore di concime; di Ninnolo, venditore di “frugiate” che posizionava il suo braciere sul mercato intorno al quale i ragazzi facevano ressa; di Pilade, dispensatore di lupini; di Bencio, che ogni sera d’estate provvedeva ad innaffiare le strade polverose del paese con una cisterna d’acqua trainata da un cavallo e della Randellina, espressione “bonsai della donna”, che portava al braccio una cesta più grossa di lei piena di chicchi. Ma ecco anche Giulino, ortolano, che irrigava il suo orto con una grossa ruota immersa in un fossone che lui azionava salendovi sopra. Per i ragazzi ogni sera, era uno spettacolo da non perdere.
C’era anche Gino, giovanotto dal traballante equilibrio psichico, al quale era stato affibbiato un appellativo non proprio edificante. Il suo lavoro, se mai si poteva parlare di lavoro, consisteva nel “guardare” le biciclette, nel senso di custodirle, al campo sportivo durante la partita o fuori del cinema. Confidava sulla generosità del proprietario per una ricompensa che quando non c’era, e questo avveniva il più delle volte, faceva arrabbiare Gino che pronunciava all’indirizzo dell’insolvente cliente, frasi mozze e suoni gutturali; la Fellina, saettante portatrice di telegrammi, anticipatrice dei moderni pony express, alla quale era affidato questo compito postale; Pottara, cercatore di pelli di coniglio, la cui “boutique” posta sotto l’arco di via delle Cause, emanava un odore difficilmente riconducibile alla lavanda.
Fra i tanti c’era anche un personaggio fantastico, del tutto particolare che veniva ogni tanto da fuori, una sorta di barbone ambulante con il viso tinto come una maschera africana, con anelli e ciondoli di ogni tipo addosso e con gambe incatramate fino al ginocchio. Passava a piedi nudi e vederlo era come un’apparizione; i ragazzi erano incuriositi ma allo stesso tempo avevano paura, tant’è vero che assistevano al suo passaggio da lontano. Si chiamava “Bombolo” ma era conosciuto anche come “il Fronzolaio”.
All’angolo del crocevia, Ulisse arringava la folla e con l’indice della mano destra che agitava nell’aria, ipotizzava, che stando così le cose, saremmo andati prima o poi ad un “conflitto”, alludendo ad una possibile guerra, non si sa contro chi. Come intercalare usava spesso la parola “hombre”, un’esclamazione chissà in che modo acquisita. Un altro tema ricorrente di Ulisse era quello di convincere il figlio Tiziano a dotare il suo camioncino, ricavato da un vecchio Balilla tre Marce e adibito al ritiro del latte, sovente fermo per la rottura delle balestre a causa delle strade dissestate, di più affidabili “balestrini da calessi”.
Palle invece, veniva a Quarrata la domenica, per immortalare con la macchina fotografica quanti volessero un’istantanea da tramandare ai posteri. Messo davanti all’obiettivo il soggetto, lui scompariva con la testa sotto un panno nero, necessario perché la foto non prendesse luce, e dopo avere almanaccato alla peretta dell’otturatore per un po’, ridava al cliente, rimasto fermo senza muoversi per almeno cinque minuti, l’ordine di riposo.
Come non ricordare “l’Inissina”, microscopico esemplare femminile perennemente alle prese con il modano che usava con destrezza e abilità chirurgiche e con la rete ancorata alla calza sotto il ginocchio, per mezzo di uno spillo? Veniva chiamata “Il Gazzattino”, per la sua prerogativa di essere “persona informata sui fatti” tanto per far ricorso al linguaggio giudiziario. Da lei era possibile sapere se il tal dei tali era in ottima salute fisica e finanziaria, se un tal fidanzamento sarebbe andato in porto oppure no, se quel tizio aveva le corna o si trattava soltanto di dicerie, tutto ciò insomma che aveva attinenza al pettegolezzo. Ma era nel contempo una donna intelligente, con una buona conoscenza delle cose, per aver frequentato a suo tempo la scuola fino alla terza.
Ma c’era anche il venditore del grasso di marmotta che, durante il mercato settimanale della domenica, issato su un tavolino per avere una veduta aerea, si avvaleva della presenza di un esemplare dell’animale, il quale esposto in una gabbietta diventava un ignaro veicolo pubblicitario. Alla fine, dopo aver decantato le virtù taumaturgiche del grasso in questione, prezioso medicamento idoneo in qualsiasi occasione, il ciarlatano passava alla dimostrazione di come il prodotto andava usato. Applicata una piccola dose di unguento sul suo braccio, cominciava a massaggiarlo, raccomandando che il movimento fosse fatto dal basso verso l’alto e non viceversa, «così, in questa maniera qui». Quindi uno sguardo sulla folla e… «un pezzo a lei, uno anche a lei, uno pure a lei signore», e la mattinata era conclusa.
Anche il cantastorie non mancava mai all’appuntamento domenicale. Dopo aver piazzato un’asta con il cartellone sul quale era rappresentato con alcune immagini il dramma da raccontare, cominciava prima accennando alla storia, quasi sempre infarcita di amori foschi, spose abbandonate, cupi rancori, gelosie e accoltellamenti, perpetrati sempre in nome dell’amore. Se c’era il morto meglio. Poi passava alla versione cantata. In qualche caso la storia era più edificante e poteva darsi che il destino, una volta tanto, benevolo, facesse incontrare padre e figlio che non si erano mai conosciuti. Ma succedeva di rado. Il tutto condito con il suono di un organetto, a cui si accompagnavano la grancassa e un piatto per sottolineare i momenti più salienti. Concluso il racconto, dilatato il più possibile con opportune pause, il cantastorie proponeva ai presenti il foglio sul quale era scritto, con dovizia di particolari, la vicenda testé narrata, e per pochi soldi l’acquirente avrebbe potuto partecipare ai familiari l’eco di tanta disgrazia. Insieme, un pappagallino, offriva col becco “la fortuna”, che era un foglietto sul quale figuravano alcuni numeri da giocare al lotto. Intorno una platea di bocche estasiate, che mettevano in risalto dentature intermittenti, smerlate come trine.
A questi personaggi, figure ricorrenti della nostra giovinezza, con un po’ di rimpianto va il nostro ricordo affettuoso.