L’ha detto la televisione

L’ha detto la televisione

di Massimo Cappelli

settembre 2024

Nella seconda metà degli anni Sessanta, quando nelle case degli italiani entrarono le prime televisioni in bianco e nero, fu come se fosse entrato in casa l’oracolo. Quello che “diceva la televisione” fu preso da subito con assoluta considerazione: dalle previsioni del tempo ai TG, dai giochi a quiz ai programmi di intrattenimento e i varietà di prima serata. Bastava che durante la cena qualche conduttore desse una notizia interessante e qualcuno della famiglia in quel preciso istante chiedesse che gli fosse passato il sale, o l’olio, parlando sopra allo speaker, che si scatenava il finimondo: «Zi zi… zitto! Un s’è capito nulla, sempre i’ tu’ solito vizio, ovvia. Un tu ci fai mai capì nulla». Poi invece, molti, una cosa la capirono, che durante la cena era meglio spengere la TV.

In quegli anni esisteva solo la Rai e il palinsesto non copriva ancora l’intera giornata, i programmi all’ora di pranzo non c’erano ancora e le trasmissioni iniziavano nel pomeriggio con “La TV dei ragazzi”. Appena finiti i compiti, andavamo tutti davanti al televisore in attesa che sparisse il monoscopio e iniziassero “Rin tin tin”, piuttosto che “Il segno di Zorro”, o “Furia il Cavallo del west”, oppure “Pippi Calzelunghe”. I dirigenti Rai non avevano ancora percepito la forza, il potere e l’autorità della televisione, per cui questa veniva utilizzata solo per il mero intrattenimento. Ma un decennio più avanti qualcuno si accorse che questo mezzo di comunicazione di massa, se fatto diventare uno strumento di persuasione e messo al servizio del marketing, sarebbe divenuto una gallina dalle uova d’oro. Questo lo scoprirono sia la TV di Stato, sia il patron della neonata “Canale 5”, l’imprenditore milanese Silvio Berlusconi, che con il presentatore Mike Buongiorno portato via alla concorrenza, importarono in Italia il modello americano di TV commerciale e dettero il via ad un polo concorrente alla Rai.

In questi settant’anni, la TV, grazie ad una grande capacità di adattamento ai bisogni del suo pubblico, ha perseguito in egual misura intrattenimento e business, perdendo la genuinità dei programmi degli anni Cinquanta, attuando l’approccio molto più furbesco di oggi, che si rivolge ad un pubblico sempre più erudito con trasmissioni studiate apposta per avere sempre più gradimento. Le più eclatanti sono quelle di approfondimento giornalistico, dove i conduttori, spesso, sostituendosi alla Magistratura ma centrando in pieno il favore dei telespettatori, disquisiscono su avvenimenti di cronaca nera senza considerare che fanno spettacolo su grandi e reali disgrazie; in certi casi continuando sull’argomento anche per molte puntate e svariati mesi. Il bello è che se si prova a cambiare canale i temi trattati sono sempre gli stessi.

Non starò qui a fare un’analisi sul piano antropologico o socio-culturale, onestamente non ne sarei all’altezza, una considerazione personale però posso sempre farla: l’intento degli autori dei programmi è quello di agganciarsi al gradimento del pubblico (e in certi casi anche al suo desiderio morboso) perché ogni 60 minuti ce ne sono almeno 12 (ma anche di più) destinati a spazi pubblicitari, quindi, più persone si acchiappano, e più caro si venderà il nostro 30 secondi. Questa è la priorità di ogni TV commerciale e anche della Rai che si è allineata sin dai primi anni Ottanta, da quando fu deciso di dare più spazio alla pubblicità inserendo nel palinsesto tantissimi break dopo aver abolito “Carosello”, la rubrica più amata dai bambini che veniva trasmessa alle nove della sera dopo il telegiornale.

Già dalla fine degli anni Settanta, per tenere incollate le persone al video, furono ideati programmi leggeri e spensierati come “Non Stop” sulla Rai, che dette la prima visibilità a Carlo Verdone, a Francesco Nuti, a Massimo Troisi, a Beppe Grillo e a tanti altri personaggi oggi molto noti. Qualche anno dopo arrivò anche la risposta della Fininvest con “Drive In” e con il successone di “Colpo Grosso”, un piccante varietà sessualmente spinto prodotto dal Gruppo di Berlusconi e mandato in onda sul circuito Italia 7, nelle varie emittenti locali italiane. Per vedere questa trasmissione i maschietti si radunavano nei Bar, perché magari a casa c’erano i bambini o una moglie contrariata. Queste erano le strategie di allora per conquistare il consenso del pubblico in un’Italia immersa in un grande benessere trasversale e con la voglia di ridere e divertirsi.

Oggi invece, sia su Rai che su Mediaset, ma anche nelle TV del terzo polo di Cairo, si parla solo di scandali, di persone smarrite, di famiglie sterminate, di femminicidi, senza pensare lontanamente (come spiegavo prima) alla spettacolarizzazione di una tragedia. Quindi, è cambiata la televisione, o è cambiata la società? Oppure il mezzo di comunicazione si è adattato al cambiamento per favorire i suoi inserzionisti e farli vendere di più? La televisione, dopo settant’anni dalla sua nascita, sembra non si sia concentrata a dare il proprio contributo per migliorare il mondo (o forse lo ha fatto solo in parte) è diventata piuttosto la copia esatta della società, prendendone i vizi solo per azionare i “neuroni specchio” delle masse, inducendole sempre di più ad un maggior consumo.

Mi domando come sarà il mondo fra altri settanta o cento anni, quando, come cantavano i Nomadi, “Noi non ci saremo”. Chi lo sa? Una cosa è certa, la nostra generazione è stata senza dubbio la più fortunata da quando è arrivato l’uomo sulla terra. A cavallo del millennio abbiamo raggiunto l’apice dell’agiatezza, il benessere non ha toccato solo l’élite ma anche gli strati sociali molto più in basso, ma adesso, ahimè, sembra che tutto questo stia scomparendo, la distinzione sociale è sempre più netta e le classi si stanno sempre più allontanando tra loro. In vetta alla piramide, pochissime persone al mondo, forse poche centinaia, sempre più tanto (troppo) ricche. E alla base, invece, centinaia di migliaia, forse miliardi di individui sempre più poveri, e questo avviene anche alla nostra latitudine portandoci ad un malessere collettivo e anche ad un impoverimento nei valori.

Tuttavia non bisogna mai smettere di pensare in positivo, mi piacerebbe poter arrivare a vedere cambiamento, e un giorno, poter sentir dire alla televisione che anche l’ultima guerra al mondo è finita, che le poche centinaia di persone più ricche del pianeta hanno distribuito il novantacinque per cento del loro capitale in beneficenza, che l’intera umanità basa la propria esistenza sulla condivisione e che finalmente è finita l’immigrazione. Sì, finita l’immigrazione, per il semplice fatto che il mondo non è più diviso in tanti Stati ma ce n’è solo uno: lo Stato Pangea, divinamente governato da qualcuno arrivato dal cielo.

Non ci credete? L’ha detto la televisione!

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