di Marco Bagnoli
giugno 2018
Nel cercare il sottotitolo più idoneo a questo articolo ci siamo trovati in difficoltà, dal momento che definire Carlo Pellegrini con un etichetta avrebbe finito col risultare una cosa limitativa. Forse la sola etichetta utile sarebbe stata quella adesiva del suo gruppo di arrampicata di fine anni Novanta, Les diables de la glace, che campeggia sullo schedario nel suo laboratorio – e in un certo senso ci avremmo anche preso. Per cui teniamo per buono che Carlo può essere un eccellente diavolo del ghiaccio e iniziamo a leggere.
Tanto per cominciare Carlo è un convinto fumatore di sigaro toscano, e si potrebbe passare del tempo contando le sue scatole accuratamente impilate a futura memoria; ma la cosa importante è che mentre fuma, Carlo racconta. E ci parla della montagna. Sono quarant’anni che Carlo si arrampica. Possono cambiare le pareti o i compagni d’avventura – e nel corso del tempo si sono avvicendati in molti, travolti dalla vita, dalla famiglia, dai gatti o dall’età – ma la montagna, che la si chiami con un nome italiano oppure francese, resta sempre là, più o meno in verticale, a sfidare i tuoi timori e i tuoi azzardi.
Si arrampicava tutto l’anno, ma ultimamente solo d’estate, perché negli ultimi anni l’inverno si è fatto freddo anche per lui. Si arrampicava sulla roccia e sul ghiaccio, a forza di mani e piccozze, magari quelle inventate da lui. La montagna non è una vocazione, secondo lui, ma è semplicemente qualcosa che negli anni si fa, dedicandoci tempo e un po’ di denaro, anche senza essere capito dagli altri, perché tanto la si fa lo stesso. Molti pensano sia una fatica per il corpo, ma la sfida vera è per la testa, psicologica. Oggigiorno è possibile arrampicare su delle pareti tracciate, magari nel chiuso illuminato di una palestra, giorno e notte, ma l’arrampicata “vera” è un’altra cosa – quelli che arrampicano oggi, con la via segnata e tutti i chiodi già disposti uno appresso all’altro, fanno una fatica di corpo, ma la vera sfida per la mente è su un campo libero sgombro e senza appigli. E però questa è un’arrampicata più di qualità. Ora a fine giugno c’è la prima uscita della stagione, una macchinata con qualche amico e si parte per le Dolomiti.
Inseparabile nei suoi viaggi è la macchina fotografica. Sono migliaia e migliaia di diapositive, comprese quelle che gli altri hanno scattato a lui. E persino Carlo, che non ha un buon rapporto col digitale, si va convincendo sempre più della necessità di fare una mostra prima o poi, in modo da condividere e rendere un po’ più social qualcosa che era nata come una cosa intima a molti metri di altezza tra lui e la montagna. Intendiamoci, non è che sia contro la tecnologia, solo che per lui, abituato a costruirsi le piccozze da solo, il mondo di oggi pare un po’ troppo vincolato all’energia elettrica, senza la quale si smette anche di essere dei semplici consumatori, mentre il bravo contadino di una volta era anche fabbro, idraulico, muratore… Il suo sogno è un libro intitolato “Alpinismo in osteria”, e dovrebbe contenere il lato comico e meno brillante dell’esperienza della montagna, un alpinismo preso alla sprovvista, così com’è.
L’altra sua passione, da più di cinquant’anni, è il modellismo – un modellismo in scala ma tutto artigianale, fatto a mano. Navi, aerei, ma anche sommergibili, armi e moto, qualcuna di dimensioni reali. Ci lavora la sera e ultimamente negli inverni della montagna, mentre aspetta l’estate per arrampicare di nuovo. Una storia a parte sarebbe quella delle sue piccozze, realizzate da Carlo su disegno del suo grande amico Mauro Corona: troppo difficili da brevettare, così ha regalato il progetto a una ditta scozzese.