di Marco Bagnoli
dicembre 2014
Nel fare la conoscenza di un cantante come Giovanni Mazzei, non si può non rimanere stupefatti dalla straordinaria normalità di un professionista della lirica. Gli studi intrapresi gli hanno consentito di vestire i panni di alcuni dei più grandi personaggi del melodramma, dal Don Giovanni al Figaro di Mozart, dal Rigoletto al Nabucco verdiani, dal barone Scarpia della “Tosca” di Puccini al compare Alfio della “Cavalleria rusticana” di Mascagni. L’incontro di Giovanni con questi personaggi di fantasia, si rispecchia anche nella realtà dei tanti momenti vissuti al fianco di personalità reali e non per questo fuori dell’ordinario, tra i quali non possiamo non ricordare i maestri Muti, Abbado, Chailly e Metha; anche i registi, ideatori essenziali della componente visiva dell’opera, si susseguono negli anni, alternando Fo a Ronconi, Herzog a Zeffirelli, la Cavani a Patroni-Griffi. Questo cammino, che ha portato Giovanni a calcare alcuni dei palcoscenici più importanti d’Italia, fino ad arrivare a Parigi, Londra e Tokio, inizia da lontano, al punto da sembrare fosse indirizzato verso ben altre mete.
Giovanni è diventato aglianese da circa sei anni, ma è originario di Pietrapaola, vicino Cosenza; il suo incontro con la musica avviene un po’ per caso, al di là della cerchia familiare – ad ogni modo a Prato, dove la famiglia si trasferisce quand’è ancora piccolo. Giovanni è molto giovane quando neanche quindicenne varca il cancello della fabbrica, come primogenito di quattro figli e quindi pronto a contribuire come può, anche facendo i turni di notte, solitamente evitati dagli operai sposati. Alcune delle persone più importanti della sua vita le incontrerà proprio in fabbrica – qualcuno come Bruno Acciai, laureato in lettere, desterà la sua curiosità per il sapere nei ritagli di tempo di quegli interminabili turni – altri, come Giuseppe Bonetti, muratore appassionato di lirica, qualche anno dopo porterà oltre i suoi interessi; all’epoca Giovanni era sempre operaio, e una sera che suonava col suo complessino accompagnandosi con la chitarra, Giuseppe si fece avanti, gli strinse la mano e gli disse che così non cantava bene; di fronte alla sua perplessità l’uomo si affrettò a precisare “non canti bene perché sei un baritono”, parola per il nostro Giovanni più che sconosciuta – e come a voler rincarare la dose gli suggerì di non lasciarsi sfuggire l’imminente “Elisir d’amore” di Donizetti che sarebbe andato in scena alla Fortezza Santa Barbara. Il mistero continuava a restar fitto, ma solo per rendere ancor più meravigliosa la sorpresa di scoprire il tutto sorprendentemente familiare, al punto da mettere in secondo piano le pur notevoli doti mnemoniche che Giovanni era in grado di esibire già dopo un solo ascolto.
Questa sua inclinazione musicale quasi contrariò Giuseppe, un po’ amareggiato nel vedere Giovanni, tra i ventidue e i ventitré anni, ormai al di fuori dei circuiti e dei tempi canonici dell’istruzione. E infatti Giovanni iniziò gli studi di canto di nascosto dal muratore filodrammatico, convocandolo soltanto presso la scuola Giuseppe Verdi di Prato in occasione del suo primo saggio; in famiglia il segreto si protrasse addirittura per alcuni anni, nel corso dei quali fu di nuovo la fabbrica, la Superal, a supportare l’arte, concedendogli pause semestrali per le tournée liriche, in Italia e all’estero, per ben tre anni – anni di professionismo a tutti gli effetti. A quel punto la scelta si presentava obbligata: mollare tutto e iniziare la carriera. Nel ’90 si diploma in canto alla Scuola di musica di Fiesole, dove studia col baritono Rolando Panerai recentemente festeggiato da tutti i suoi allievi – una dimensione comunitaria dell’esperienza umana che sembra quasi suggerire il senso proprio del fenomeno corale, in questi giorni frequentato da Giovanni tra le fila del Coro del Maggio, sul sentiero delle note sacre di Bach.