di Marco Bagnoli. Foto: Gabriele Bellini.
marzo 2022
Paolo Bini è una persona conosciuta ad Agliana, anche se non ama dire molto di sé. Abbiamo quindi deciso di raccontarvelo – e in particolare a quelli che ancora non l’hanno incontrato – attraverso quello che fa, cercando di mettere da parte troppe parole inutili. Nella vita di tutti i giorni fa il restauratore per una ditta di Agliana, e sempre tutti i giorni si dedica, come può, alla sua passione per l’arte e per la storia, in particolare per quella locale. Non è un caso se più di una volta ha prestato il suo tempo, e quello che conosce, alle pagine di qualche libro sul territorio che ci ospita. Oppure se un bel giorno ha deciso di immergersi tra le carte dell’archivio parrocchiale di San Piero, per riemergerne magari un po’ impolverato, ma certo con le idee un po’ meno nebbiose sul tempo che ci ha preceduto.
Questa sua passione per la storia e per l’arte, si può simbolicamente far risalire al regalo ricevuto un giorno da una zia, un bel libro di storia, le cui pagine dedicate all’antico Egitto non hanno mancato di catturare l’attenzione del piccolo Paolo, un vispo bambino degli anni Settanta. Il libro era immancabilmente illustrato e i reperti artistici così raffigurati hanno come acceso un interruttore. Forse una delle più importanti virtù nelle quali sperare di incorrere, la curiosità, ha fatto così breccia nella sua vita – una curiosità sana, intesa come antidoto al conformismo e all’appiattimento esistenziale che invece sempre più di frequente si intravede in giro, specie di questi tempi. E Paolo si è così incuriosito. Una delle cose che gli dicevano anche a scuola, e cioè che qua nei dintorni non c’è mai stato niente di che, se non forse un territorio paludoso, ha subito innescato per reazione, la voglia di capire per davvero come stessero le cose. E siccome la terra di Agliana non ha ospitato grandi storici del calibro di Plinio il Vecchio, allora per raccogliere qualche notizia utile bisogna per forza andare a spulciare le fonti “traverse”, quelle che parlano di tutt’altro, di papi e imperatori, che magari si sono soffermati nei paraggi, un giorno lontano di qualche secolo fa.
E allora, com’era Agliana? Davvero era solo un territorio umido e inospitale? Davvero deve il suo nome al bianco spicchio dell’aglio? E la gente, come se la passava?
Pagine e pagine sono già state spese su queste domande, anche le nostre di Noi di Qua. E sembra che in definitiva, nei tempi passati il luogo non fosse proprio malaccio, che il clima all’epoca fosse più galantuomo, e soprattutto che la gente fosse sufficientemente benestante da potersi permettere di mantenere le varie istituzioni religiose, che hanno nei secoli contraddistinto lo sviluppo del paese. Ma a dirla tutta la gente aveva ben altro. Qualcosa che oggi si va sfilacciando tra le mani, mentre si cerca invano di venirne a capo. La gente aveva se stessa: aveva la capacità di raccontare la storia della propria famiglia, di tramandare la prodigiosa rivelazione che a ben guardare, forse, siamo tutti un po’ parenti, alla lontana. E forse, di questi tempi, la percezione, la coscienza di essere parte di una cosa grande, chiamata umanità, potrebbe salvarci dalla deriva della nostra autodistruzione.
E a una persona che nel corso delle sue letture ha più volte misurato lo scandirsi dei secoli per mezzo del rosario blasfemo delle guerre, che racconta il passaggio alla Stazione del Milite Ignoto come se lo avesse visto, non si può non domandare cosa pensi di quello che vediamo oggi. Forse Paolo sarebbe d’accordo col filosofo, che dice che noi dalla storia impariamo soltanto una cosa: che non impariamo dalla storia.