Villa Baldi a Ferruccia

Villa Baldi a Ferruccia

di Marco Bagnoli

marzo 2015

Uno degli edifici storici più importanti e più rappresentativi di Agliana è senza dubbio Villa Baldi, alla Ferruccia. Più efficacemente di altri luoghi pubblici, dov’era evidente la simbologia e l’autorità dello Stato – o, perfino, della Chiesa – Villa Baldi è stata oggetto dello sguardo e dei pensieri di tantissimi abitanti di Agliana, quasi un punto fermo della vita di tutti i giorni, al pari della terra che si calpesta e dell’aria che si respira. Ci siamo quindi rivolti a Alessandro Baroncelli, un ferrucciano doc e un grande appassionato della storia del suo paese; ci siamo fatti raccontare che cosa è stata Villa Baldi e che cosa ne è rimasto oggi.

La vicenda strettamente fisica dell’edificio si riassume brevemente: siamo alla fine del settecento quando una prima costruzione viene eretta attorno ad un pozzo nei pressi del fiume Ombrone dalla famiglia Baldi; quasi un secolo dopo, nel 1860, il progetto viene esteso con l’edificio che attualmente domina il panorama. La proprietà resta dei Baldi fino alla pressoché totale estinzione della famiglia, all’altezza del secondo dopoguerra; a questo punto il tutto diviene parte del lascito in favore dell’ordine delle Serve di Maria, che proprio attorno al 1950, realizzeranno l’asilo intitolato a Mario Baldi. Proprietari saranno poi i Betti, i Magnolfi e infine i La Greca, intenzionati a ripristinarne l’aspetto ormai resosi irriconoscibile sotto i segni del tempo. Tuttavia l’architettura di gran lunga più persistente e diffusa, non è quella fatta dalle pietre e dai mattoni, ma quella delle persone che a queste mura sono rimaste legate – e non solo i legittimi proprietari, ma ancor di più gli estranei, che allo stesso tempo vi erano di casa.

La fase storica nella quale si colloca Villa Baldi è quella della mezzadria: una tipologia economica e produttiva per noi estremamente lontana eppure così essenziale non tanto alla prosperità, quanto all’esistenza stessa delle popolazioni di questi luoghi. Lavorare per un padrone, essere legati alle ricchezze di qualcuno significava in un certo senso partecipare di quella ricchezza, condividerne la buona sorte nelle lunghe giornate profittevoli, quando gli accidenti della stagione e le malattie del bestiame potevano segnare un’intera annata. Un modo di vivere basato sulla fatica delle azioni quotidiane e sui pensieri di una matematica strettamente funzionale a far quadrare il bilancio familiare, finisce inevitabilmente per trovare un proprio fulcro nel mondo reale – e la villa, nei pressi di un ponte su di un corso d’acqua, rivendica con forza una sua importanza, che dagli occhi resta nella mente, e col tempo nell’anima delle persone. L’edificio suggerisce ancora la moltitudine di gente che l’hanno frequentato, mentre le persone ancora in vita si ricordano esattamente di lui, e lo raccontano così come è stato. Col passare del tempo, però, il volto di quelle mura ha iniziato a mutare, a rendersi irriconoscibile, finendo col far apparire quei testimoni come persone che parlavano di tutt’altro, di un’altra casa, di un edificio che forse era stato, ma certo adesso non era più. Non era più il simbolo della volontà di esistere ad ogni costo e con tutte le forze, ma si era trasformata in un monumento all’abbandono, come una resa alla tempesta, quand’anche gli alberi cadono e le foglie volan via. 

Sembra quasi impossibile credere che nel 1901, proprio alla Ferruccia nascesse la prima Cassa rurale della provincia di Pistoia: gli ultimi tornanti della crisi in atto ci hanno insegnato a non guardare di buon occhio le banche e i prestiti di soldi, ma all’epoca l’azione di un prete di campagna, rese sopportabile una vita altrimenti inaccettabile. Questo prete – osteggiato e chiamato socialista, poiché l’epiteto di comunista ancora non l’avevano inventato – era il “piovano” della Ferruccia, don Orazio Ceccarelli.

 

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