di Giacomo Bini
settembre 2015
Il libro di Andrea Bolognesi, Castagneti, castagne e canicciaie, edito dalla Pro Loco di Tobbiana, è un contributo notevole alla storia della nostra terra e alla civiltà che ruotava intorno alle castagne che “erano per le popolazioni montane quello che il grano era per i contadini” cioè la principale fonte di sostentamento e il centro di un mondo di lavoro, di vita individuale e collettiva. Il pregevole volume è il primo di una collana che la Pro Loco di Tobbiana ha intitolato “Tobbiana, storia e tradizioni”.
Il libro di Bolognesi contiene una ricerca storica documentata e rigorosa com’è nello stile dell’autore e si arricchisce delle belle fotografie di Alfo Signorini sapientemente inserite nel testo a cura di Gabriele Signorini che ha curato l’impaginazione e la grafica. Il libro è inoltre corredato da un interessantissimo Glossario del castagneto e della castagna in uso nella valle dell’Agna, da una sezione dedicata ai proverbi e da un elenco dettagliato delle canicciaie presenti nella zona (30 in tutto, menzionate con il loro nome e la località in cui si trovano). Tra i bellissimi proverbi ne ricordiamo solo uno che riassume in poche parole la dieta delle popolazioni montane: “Pan di legno e vin di nuvoli” che allude alla castagna come frutto del legno del castagno, chiamato anche “l’albero del pane”, mentre ovviamente il “vin di nuvoli” è l’acqua. Tra le parole del glossario, solo alcune sono ancora note e di uso comune, come “ballotti”, “frugiate” o “marone”, mentre le altre fanno parte di un linguaggio legato ad una civiltà ormai quasi scomparsa come “capitozza tura”, “roncare”, “màtero” e tante altre.
Tra le altre testimonianze il libro contiene quella di Rita Nesi (nata a Montale nel 1929) che racconta così: «Si cominciava a raccattare le castagne dopo la festa (la prima domenica d’ottobre) e si finiva dopo i Morti. Si partiva tutte la mattina presto, noi più grandicelle, ci voleva un’ora per arrivare e non s’andava a scuola. Con noi c’era i’ babbo o i’ zi’ Candido che era senza un braccio perché l’aveva perso in fabbrica alla lupa. Si raccattavano castagne tutto il giorno ni’ castagneto roncato. Poi si portavano alla canicciaia e si buttavano sul caniccio per una finistrina che si chiamava verciatoia. Quando nel caniccio c’erano una certa quantità di castagne, di sotto s’accendeva il foco che bruciava di giorno e di notte. Nella canicciaia non ci si dormiva ma spesso ci si mangiava perché c’era caldo: quante pentole di ballotti ci s’è fatto! Quando si venia via, la sera, si pigliva una manata di ballotti per uno e si mangiavano per strada. Nella canicciaia c’era fumo, ma se si stava a sedere bassi bassi non dava noia. Ogni tanto il babbo entrava dalla finestrina che è sopra la porta e andava a rigirare le castagne perché seccassero per bene. Gli ultimi sette otto giorni ci stavamo anche a dormire. Verso la metà di novembre o anche più in là le castagne erano secche. […] Mi ricordo che un anno si fece quattro quintali e mezzo di farina. E a polende la si mangiò tutta e ci s’aveva anche un po’ di farina di granturco che i’ babbo aveva seminato. Immagina te quanta polenda ho mangiato».