C’era una volta un piccolo teatro (e forse una piccola chiesa)

C’era una volta un piccolo teatro (e forse una piccola chiesa)

di David Colzi. Foto: Bruno Tempestini

giugno 2024

Questo titolo potrebbe far pensare ad una delle “Favole al telefono” di Gianni Rodari, ma qui purtroppo non siamo nel mondo della fantasia, dell’incanto, bensì ci ritroviamo ancora una volta a calpestare il sentiero, troppe volte battuto in questi anni da Noidiqua, dei monumenti perduti della nostra civiltà contadina. Dopo i mulini, i tabernacoli e le case coloniche, stavolta tocca ad un piccolo teatro, che molti di voi faranno fatica anche a ricordare.

La nostra storia inizia negli anni ’80, quando Bruno Tempestini, Ispettore Onorario per i Beni Archeologici per i Comuni di Agliana, Montale, Quarrata e Montemurlo, portava gli alunni delle scuole elementari di Montale in giro per il nostro territorio, per fargli riscoprire i punti di interesse storico del Comune. Così, ebbe inizio la sua frequentazione di quel curioso edificio in via Maone e Casello, piccolo, a croce latina, sorretto internamente da capriate in legno e con una finestra rotonda che dava sulla strada. Gli anziani del luogo raccontavano alle scolaresche che quando loro erano piccoli, ci andavano a vedere delle rappresentazioni teatrali messe in scena in occasione di feste religiose o sagre. Al suo interno, all’epoca adibito a laboratorio tessile, si poteva ancora notare le tracce di un palcoscenico sul fondo, con un arco e gli agganci per far scorrere il sipario. Tempestini, cominciò a maturare l’idea di fare tutto il possibile per salvare quel monumento popolare, interpellando l’amministrazione comunale, visto che nei dintorni cominciavano già a spuntare, uno dopo l’altro, cantieri e appartamenti.

Nei primi anni ’90, la ditta artigiana che l’occupava ebbe lo sfratto e il nostro ispettore tornò a chiedere il recupero del rudere, anche attraverso articoli apparsi su Il Tirreno e La Nazione, consapevole del fatto che l’immobile era in una proprietà privata. Nel 1999 iniziarono i lavori di ristrutturazione vicino al teatrino e questo venne a sua volta recintato per l’abbattimento, al fine di realizzare un condominio con cinque unità immobiliari. Dalle pagine de La Nazione, Tempestini comunicò che l’edificio era stato segnalato alla sovrintendenza che aveva momentaneamente fermato i lavori per verificare se c’erano gli estremi per salvarlo dalle ruspe. In particolare si cercava di capire se quello poteva essere la misteriosa chiesa di Santa Maria di Vizzano, di cui si accenna in documenti storici fin dall’anno 1012, ma mai rinvenuta. Dopo vari sopralluoghi, si ritenne che il rudere di via Maone e Casello non lo era, nonostante al suo interno ci fosse un accenno di affresco. Così, il 22 luglio del 1999, la Nazione a firma di Giacomo Bini titolava: “Il vecchio laboratorio sarà demolito”. Al suo interno si specificava: “Il vecchio immobile, che per decenni ha ospitato un laboratorio artigianale, è stato esaminato da un funzionario della soprintendenza che però non lo ha ritenuto motivo sufficiente per bloccare i lavori in corso nel cantiere. Il sopralluogo effettuato ha portato alla luce tracce di una decorazione pittorica sulle pareti interne, ma anche questo aspetto non è stato giudicato rilevante dalla soprintendenza”.

«Comunque» precisa oggi Tempestini «che fosse o meno l’antica chiesa di Vizzano, io resto convinto che nei secoli scorsi quello sia stato un edificio religioso. D’altronde, quale abitazione privata è mai stata costruita a croce latina? E poi quella finestra tonda, secondo me era significativa tanto quanto quell’accenno di panneggio interno. Comunque, oramai non ha più importanza; la modernità ancora una volta ha vinto».

Con quali presupposti si poteva salvare?

«Acquistandolo e restaurandolo, il Comune poteva adibirlo di nuovo a luogo per attività culturali, oppure poteva darlo in gestione a qualche associazione del territorio, per farne un punto di ritrovo. Come ho già detto tante volte, il valore di certe costruzioni del nostro passato, come i tabernacoli o i mulini, sono nulla rispetto ai grandi beni artistici regionali o nazionali, ma rappresentano la nostra identità, la nostra storia, che è quasi del tutto scomparsa a causa della cementificazione selvaggia e di cui restano oggi solo rare tracce fotografiche» conclude Bruno Tempestini.

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