Io faccio il mio…

Io faccio il mio…

di Giacomo Bini

marzo 2023

E’ sempre più diffuso, nelle professioni di ogni tipo, un atteggiamento “difensivo”, cioè di chi, nell’esercizio delle sue funzioni, si limita rigorosamente alle proprie competenze e si astiene da atti o da decisioni che potrebbero comportare per lui qualche forma di rivalsa civile, amministrativa o anche penale. E’ un atteggiamento di prudenza utilitaristica: meglio non fare che rischiare di finire sotto accusa. Il risultato è che tutti, singolarmente presi, fanno ciò che ritengono il proprio stretto dovere ma alla fine non c’è alcun beneficio per la collettività e per gli individui interessati oppure, nei casi più sfortunati, ne derivano addirittura gravi danni per i quali però nessuno si sente responsabile.

Un funzionario della pubblica amministrazione mette solo le firme che ritiene prive di rischi, un insegnante non va oltre il proprio stretto mestiere di fare lezione e dare i voti, un medico non compie un intervento per timore che gli facciano causa, un militare o un poliziotto non si spingono oltre il proprio stretto dovere di ufficio, un amministratore locale non prende una decisione che ritiene giusta per la preoccupazione di un’accusa di abuso di ufficio, un giornalista non pubblica una notizia per evitare una denuncia per diffamazione che, anche se palesemente infondata, comporta spese legali e fastidi per chi la subisce. Evitare contestazioni, scansare possibili conseguenze per sé, prevenire ricorsi, guardarsi da iniziative interpretabili come invasioni del campo altrui. Tutto legittimo, tutto anche, apparentemente, moralmente ineccepibile.

Difficile individuare un’origine sola di questo atteggiamento: ci sono cause culturali, psicologiche oppure derivanti dall’instaurazione di sistemi giuridici cavillosi e opachi. Non è neanche un atteggiamento nuovo, si dice infatti che Alessandro Magno dovette preventivamente concedere l’immunità totale ad un chirurgo, per farsi togliere una freccia che gli si era conficcata nel corpo durante una battaglia, perché tutti si rifiutavano di operarlo.

Non dico che quello difensivo sia l’atteggiamento di tutti, anzi, emerge dalle cronache di ogni giorno e dalle esperienze personali di ognuno di noi, come siano presenti casi di funzionari in ogni campo che vanno oltre l’orticello del loro dovere e si sporgono al di là delle proprie competenze, per generosità e altruismo. A volte vengono presentati perfino come eroi, anche se il giudizio spesso dipende dall’esito favorevole della loro lodevole iniziativa. In ogni caso non dovrebbero essere casi eccezionali ma costituire la normalità di una società civile, in cui la stella polare sia il bene dell’altro e della collettività, anche a costo di fare un passo in più rispetto alle proprie competenze di ufficio. Certo, occorrerebbero anche una cultura e un pensare comune maggiormente disposti ad ammettere gli errori, senza per questo invocare sempre risarcimenti e punizioni. «Chi fa sbaglia», dice un vecchio detto. Ma a volte, rischiando di sbagliare, si può salvare qualche vita o renderla migliore.

La tolleranza, diceva il vecchio Voltaire, si basa sulla consapevolezza che siamo tutti essere fallibili, cioè soggetti all’errore, e quindi bisogna sopportare gli errori degli altri. Ciò che invece appare insopportabile è chi dice: «Io faccio il mio, tutto il resto non mi riguarda, non è mia responsabilità». Ma è davvero questo un modo di pensare responsabile?

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