di David Colzi
febbraio 2012
I “Ka Mate Ka Ora” sono un gruppo di tre montalesi formato da due fratelli, Stefano (voce e chitarra), Carlo (basso elettrico)… e da un vicino di casa, Alberto (batteria). Il nome deriva una danza Maori, la “Ka Mate”, resa celebre dalla nazionale di rugby neozelandese: gli All Blacks. Traducendo, la band si chiamerebbe “E’ la morte, è la vita”. I ragazzi hanno all’attivo due album e si preparano a realizzare il terzo, e noi, nel giorno del terremoto che ci ha fatto sobbalzare tutti, il 27 gennaio, siamo andati a conoscergli.
Il significato del vostro nome è chiaro: ma perché ne avete scelto uno così difficile?
Carlo: Non volevamo un nome inglese e ci piaceva l’idea che si pronunciasse così come è scritto, senza per questo ricorrere all’italiano.
Stefano: (sorride) Comunque le storpiature non mancano mai, perché c’è sempre chi lo pronuncia con l’inflessione inglese e i risultati sono talvolta esilaranti. Apparte questo, la scelta è caduta su quel nome perché ci piace la sua traduzione in italiano che rappresenta il senso della nostra musica.
L’inglese non è presente nel nome, ma lo è nei vostri testi…
S: Scrivere in italiano è sicuramente più difficile, per un problema di unione tra parole e musica; in un genere come il nostro serve una lingua che permetta di usare parole da allungare, stringere… trascinare: l’inglese è perfetto!
C: Poi va detto che da un po’ di tempo è tornato di moda cantare in italiano, quindi se mai decideremo di misurarci con la nostra lingua, non sarà sicuramente fra breve!
La critica dice che il vostro genere è shoegaze, slow-core, post rock ecc… Ma voi, come definireste la vostra musica?
C: Una volta qualcuno l’ha descritta come “la musica dell’anima”: a me piace molto questa definizione perché è comprensibile e molto ampia.
S: E’ musica lenta, istintiva, che ha poco a che fare con la razionalità. Per noi, arrivare a questo tipo di suono e di testi, è stato un percorso naturale in quanto anche i gruppi che ascoltiamo suonano questa musica.
Com’è la scena musicale pistoiese e fiorentina?
C: Interessante, anche se non c’è un genere preciso di riferimento; questo è sicuramente un effetto della globalizzazione e dei nuovi media, che consentono a tutti di ascoltare tanti generi diversi.
S: Certamente questo è positivo, anche se rende più faticoso l’emergere di gruppi nuovi. Infatti se tanti musicisti suonano un genere unico, attirano più l’attenzione di critica e pubblico. Penso a ciò che accadde negli anni ‘80, con la scena New Wave fiorentina dalla quale sono emersi i Litfiba.
Come siete arrivati al primo album, “Thick As The Summer Stars” del 2009?
C: Noi non abbiamo mai fatto covers, quindi dopo un po’ che suonavamo insieme avevamo abbastanza materiale da proporre un nostro lavoro. Fondamentale è stato il contatto con un produttore americano.
S: Per altrola critica ha accolto molto bene il nostro primo lavoro in studio, oltre ogni più rosea aspettativa. Stessa soddisfazione l’abbiamo avuta per il secondo, “Entertainment in Slow Motion” del 2010. Per entrambi abbiamo faticato un po’ con la vendita, ma si sa che in Italia è difficile muoversi nel mondo della musica alternativa.
Collaborazioni?
S: Per i nostri primi due dischi abbiamo collaborato con Alberto Mariotti, in arte Samuel Katarro. Noi non ci riteniamo un gruppo chiuso, nel senso che siamo sempre disponibili a collaborare con altri musicisti. Con Samuel c’è anche un legame di amicizia, e sia noi che lui, abbiamo debuttato con i nostri progetti musicali nella stessa serata a Montale nel 2006.
Obiettivi futuri?
S: Stiamo preparando il nostro terzo album che dovrebbe uscire nel 2013. Speriamo che questo ci riporti in giro per l’Italia a suonare.