Non dite a mia madre che faccio il pubblicitario…

Non dite a mia madre che faccio il pubblicitario…

 

di Massimo Cappelli

dicembre 2017

Sia per strada che sui social, chi non mi conosce crede che io sia un giornalista, in realtà sono solo un pubblicitario. Jacques Séguéla, il mio collega francese ben più illustre e famoso di me, riferendosi al nostro lavoro scrisse questa frase, diventata molto famosa nell’ambiente: “Non dite a mia madre che faccio il pubblicitario… lei mi crede pianista in un bordello”. Questo la dice lunga sulla categoria, facendo intendere il nostro operato, che consiste nel parlare bene di chiunque, ma solo… a pagamento, per poi far godere i clienti grazie al risultato delle nostre prestazioni. Un po’ come avviene con quell’altro lavoro che molti definiscono… il più vecchio del mondo. Ovviamente, sto scherzando. Ma in questo Concludendo voglio provare a raccontare, anche se con poco spazio a disposizione, un lavoro meraviglioso, forse conosciuto da pochi, che ha inizio addirittura già nel medioevo.

Nelle prime comunità cittadine, quando la vendita dei prodotti passò dalla strada all’interno di botteghe, ci fu bisogno di esporre un segnale per attirare l’attenzione dei passanti. Oltre all’insegna, il primo mezzo pubblicitario fu la voce: erano i commercianti stessi che da imbonitori urlavano decantando le qualità e il buon prezzo dei loro prodotti; un po’ come accade ancora oggi nei mercati di frutta e pesce del sud Italia. Qualche secolo dopo, con l’invenzione della stampa, nacquero le prime affissioni, altro non erano che degli avvisi commerciali di solo testo, privi di illustrazioni, messi fuori dalla bottega. Nella seconda metà dell’Ottocento nacque la figura del venditore di spazi pubblicitari; in Italia il precursore fu Attilio Manzoni che fondò la prima concessionaria.

L’agenzia creativa invece ebbe inizio grazie alla nascita della litografia e del conseguente avvento del colore, perché insieme alle prime tecniche, come ad esempio lo slogan verbale, si poteva comunicare l’essenza di un prodotto, così il messaggio si fissava meglio nella memoria del lettore. Uno dei primi creativi fu il livornese Leonetto Cappiello, colui che a Parigi inventò la Reclàm disegnando i cartelloni per il Moulin Rouge e i mitici manifesti del Vermouth Cinzano, del Bitter Campari e molti altri. I primi anni del Novecento, in concomitanza all’invenzione della stampa offset, anche gli editori iniziarono a veicolare gli annunci pubblicitari sui quotidiani ed in quegli anni iniziava anche la cartellonistica esterna e la pubblicità sui primi tram. Nel periodo littorio molti professionisti si misero al servizio del governo fascista e anche lo stesso Gabriele D’Annunzio, prima di dissentire totalmente dal regime, pare avesse ideato gli slogan più famosi. Negli anni Cinquanta, le agenzie in Italia erano ancora poche, c’erano solo grandi strutture che interagivano solo con i grandi clienti. Ma fu questa l’epoca in cui il mondo della comunicazione pubblicitaria si preparava al grande cambiamento che fu attuato dal mezzo dei mezzi: sua maestà la televisione, che piano piano stava entrando nelle case italiane raggiungendo quasi la totalità della popolazione.

Nel 1957, in pieno boom economico nacque Carosello, un contenitore di cinque spazi pubblicitari, con delle mini storie, a film, cartoni o pupazzi animati, di due minuti ciascuna, dove nella parte finale veniva veicolato lo spot, allacciandosi al prodotto e divulgandone i plus. Carosello, nei suoi venti anni di vita, importò dall’America la tecnica del testimonial, ovvero l’impiego di personaggi famosi per dare più garanzia e credibilità ai marchi. Ma alla fine degli anni Settanta questo contenitore delle nove di sera, amico di tutti i bambini, fu soppresso per dare spazio al “trenta secondi”; l’ora televisiva diventò quarantotto minuti di programmi e dodici di pubblicità, divisi in quattro cluster. La domanda aumentò a tal punto che la Rai, nonostante avesse già tre reti, era impossibilitata a soddisfarla. Questo fece rizzare le antenne (e l’espressione mi pare proprio calzante) all’imprenditore milanese Silvio Berlusconi, che ebbe l’intuizione di contrapporsi alla TV pubblica, creando una fortuna personale che ancora oggi è sotto gli occhi di tutti.

In quegli anni, l’avvento delle Radio in F.M. e delle TV locali dette modo anche alle piccole aziende e ai negozi di quartiere di investire in pubblicità, nacquero così, anche in ambito locale, molti venditori di spazi. Le agenzie creative si moltiplicarono nei primi anni Novanta con l’arrivo del computer, dei programmi per la grafica e per i video, con i quali si poteva dare più immagine e più attenzione ad ogni attività poiché, localmente, quasi sempre si pubblicizza il punto vendita piuttosto che il prodotto. L’avvento di Internet dà continuità a questa comunicazione pubblicitaria capillare, e i social, oggi portano l’imprenditore al marketing fai da te, facendolo senza dubbio risparmiare, ma dando uno schiaffo alla creatività e alla nostra professione che col tempo è diventata una nuova arte. Soprattutto le piccole agenzie come la nostra stanno riducendo drasticamente i fatturati, ma questo purtroppo, si sa, è il destino dei piccoli che vengono spazzati via dai colossi. E a proposito di questo, visto che fra poco è Natale, cerchiamo di acquistare i nostri regali dai pochi commercianti di vicinato rimasti, perché loro contribuiscono ad illuminare anche i dintorni del nostro uscio di casa. Diversamente, c’è il rischio che il prossimo Natale possa essere molto più buio.

Ma voglio concludere con un aforisma che spiega il perché un imprenditore debba investire in pubblicità. Il grande Marcello Marchesi lo spiegava più o meno con questo concetto:“La gallina dopo aver fatto l’uovo canta per far sapere al mondo intero che c’è un uovo fresco di giornata. Anche l’anatra fa l’uovo, ma a differenza della gallina lo fa in silenzio. Ecco perché nel mondo, quasi tutti comprano le uova che ha fatto la gallina… e non quelle dell’anatra”.

 

 

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