di Milva Maria Cappellini
dicembre 2023
Fioccavano a Quarrata le occasioni, in quei formidabili giovani anni: transitavano divi futuri, germinavano carriere galattiche. Poteva capitare, di domenica pomeriggio, che una Loredana Berté ragazza chiamasse sul palco del Tamburo della Luna, a termine spettacolo, un coetaneo en travesti – tale Renato – impetrando per lui applausi e non schiamazzi. E altre consimili meraviglie.
Attratta come una falena dalla fiamma, arrivavo dal contado sul mio Ciao amaranto, regalo per l’esame delle medie, e circumnavigavo spavalda la Piazza prima di approdare alla Casa del Popolo. Essere la nipote e beniamina del dominus del luogo, Leo Fantacci, mi garantiva (oltre all’indispensabile consenso genitoriale all’inurbamento del fine settimana) svariati privilegi, in primis l’entrata perpetua al Tamburo. In estate, poi, in pratica traslocavo.
E fu in estate che lo zio Leo – a pranzo, davanti a un sontuoso fritto dell’aia, sua opera maestra – lasciò cadere la proposta: un comico un po’ sgangherato dei sobborghi pratesi, per provare a fare il regista, girava un film nella Piana, e gli servivano comparse, ragazze belline – precisò lo zio Leo con la sua parlata stretta e nasale – a far da sfondo. Si trattava di scendere disinvolte lo scalone curvo del Tamburo, chiacchierando per finta, cioè pronunciando numeri a caso per rendere fluido il labiale. Il dettaglio aritmetico mi folgorò: un autentico espediente attoriale, trucco da apprendistato ma già promessa di gloria. Mi vidi là, minuscola Wanda Osiris, frangetta scompigliata dal discendere, giacchettino di jeans portato con negligenza sulla spalla, labbra arrotondate dagli infiniti numeri naturali, le potenze di 2, i multipli di 13. La mirabile sequenza di Fibonacci e il lampo effimero dei riflettori. Il cast, il set, il trailer, e il cuore che batte al ritmo del ciak, con la Croisette a un passo. Dagli scalini del Tamburo alla Hollywood Walk of Fame.
Urgeva ora il beneplacito materno. «Non se ne ragiona neanche, e non mi far confondere». Pensassi a studiare, piuttosto, moccichina! Due minuti di piagnisteo, non di più (funzionava così in quegli anni). Mi asciugai le lacrime, abbracciai la mamma, inforcai il Ciao e sfrecciai verso nuove avventure tra la Piazza e la Pineta. Pazienza. Sarebbero state altre ragazze, un po’ più grandi e più belline di me, a splendere su quello scalone mormorando con grazia la tabellina del 7.
Comunque, ci fu poi nel film un vertice di improvvisazione: la nostra pista da ballo e pattinaggio, una parolaccia del primattore dinoccolato e un bimbetto su rotelle che frena di scatto e scandalizzato esclama: «Oh! Ma che dici?!» (in quegli anni funzionava così). Invece non ci fu, alla fine, la scena delle starlette quarratine sullo scalone: tagliata, si vede, in fase di montaggio. Ne ebbi una gioia maligna: se non io, alla serata degli Oscar mai nessuna del Tamburo! In compenso, a quella serata ci fu, ma parecchi anni dopo, quel guitto cineasta, stralunato geniaccio dell’hinterland pratese: però a dire il vero il film premiato – La vita è bella – mi piacque meno del suo primo, il formidabile Berlinguer ti voglio bene, girato senza di me in quei giovani anni Settanta.