di David Colzi (seconda parte)
settembre 2017
Ci eravamo lasciati nel numero scorso con i nazisti intenti a smantellare il loro comando a Villa Baldi nell’estate del 1944, dato che gli americani avevano già raggiunto Firenze. La nostra cronista dell’epoca, Franca Ballardini (1925- 2009), autrice del memoriale inedito che stiamo usando per ricostruire quei giorni, portato alla nostra attenzione dalla figlia Claudia, ricorda che i soldati della Wehrmacht avevano ricevuto ordine di requisire cibo e generi di prima necessità da portare con loro durante la ritirata. Senza sosta cercavano vani, stanze e cantine con gli accessi murati o abilmente mascheratati. Nel memoriale si legge: «Andavano dappertutto, battendo sui muri con dei martelli per scoprire se dietro c’erano degli spazi vuoti. Continuarono a battere per delle ore; ma gli italiani erano stati più furbi di loro e non riuscirono a trovare proprio niente!» Una volta che i tedeschi sparirono verso nord, il fattore di villa Baldi rivelò i tesori abilmente nascosti dietro porte murate ad arte, e così difronte alla famiglia Ballardini si palesò ogni ben di Dio, fra orci pieni d’olio, damigiane di vino, prosciutti, salami, formaggi e altro ancora; insomma, dopo tante ristrettezze, un po’ di sollievo. A riguardo Franca ricorda che sua mamma era dimagrita ben venti chili, pur di sfamare i suoi tre figli.
Descrivendo la ritirata tedesca, Franca appunta questa immagine: «Una notte incominciò a passare, lungo la strada che costeggiava il lato esterno della villa, una teoria di enormi furgoni e tra l’uno e l’altro marciavano file di soldati, in silenzio assoluto, malmessi, stanchi, emaciati in volto. Chiudeva questa lunghissima colonna di furgoni e di militari una compagnia delle S.S. che fecero saltare dietro di loro quel bellissimo ponte a schiena d’asino». Una strategia questa usata al fine di rallentare l’avanzata degli americani. Per ripristinare la viabilità su quel tratto di strada, i ferrucciani dovettero aspettare l’arrivo degli alleati che costruirono, a detta di Franca, «un mostro di ferro, orrendo». Una volta spariti i tedeschi all’orizzonte, assieme agli odiati repubblichini italiani, per circa una settimana la località rimase priva di qualsiasi autorità amministrativa, anche se di tanto in tanto comparivano dei partigiani, ma, come scrive Franca: «anche loro non sapevano cosa fare».
Tutto cambiò con l’arrivo degli alleati che portarono gioia e speranza per il futuro; si vedevano sfilare colonne lunghissime di mezzi militari, e i soldati distribuivano ai civili che trovavano ai lati della strada, cioccolata e sigarette. Per capire meglio in che condizioni si era vissuti fino ad allora, torniamo a sfogliare il memoriale di Franca: «Le sigarette, che passione! Per anni avevamo fumato quel che trovavamo, e nei periodi di magra, strappando delle pagine sottilissime da vecchi libri, ci facevamo le sigarette con il tabacco in foglia. Fumare le Luky Strike, le Camel, mangiare della cioccolata vera, bere dell’autentico caffè e non quella brodaglia a base d’orzo che per anni aveva sostituito il vero caffè, tutto sembrava incredibile. Sotto i nostri occhi, si muoveva un universo del tutto sconosciuto».
Nella villa si insediarono per primi dei reparti sudafricani che indossavano una divisa tipo sahariana color cachi e portavano un cappello a larghe tese, con una fascia di pelle di leopardo; con loro c’erano dei servitori di pelle nera. Però anche con questi nuovi coinquilini non mancarono gli screzi, infatti Wanda, la mamma di Franca, si accorse un giorno che erano spariti due materassi di lana. Dopo aver indagato per conto suo, scoprì chi erano i ladri, cioè due servitori di colore; così denunciò il furto al Comandante del reparto e la refurtiva venne recuperata. La cosa che sconvolse tutti però, fu la punizione riservata ai ladruncoli, che vennero legati a un palo del cortile interno alla villa e frustati senza pietà. «L’altissima opinione che avevamo dei “civilissimi” alleati subì allora un duro colpo» ammette Franca nei suoi scritti. Comunque sia, almeno questi alleati non vessavano la popolazione locale, anzi l’aiutavano; ad esempio fu grazie ad un medico sudafricano di istanza alla villa, che la sorella di Franca, Renata, poté ricevere una pomata per guarire da una brutta infezione cutanea, «e questo fu il primo approccio con la penicillina, medicamento a noi del tutto sconosciuto». E così come aveva fatto amicizia con il soldato tedesco di nome Orlando, allo stesso modo la famiglia entrò in confidenza con un giovane ragazzo sudafricano del reparto, Felix, che rimase in contatto con i Ballardini anche quando tornarono a Pistoia.
A proposito del nostro capoluogo, scrive Franca: «A Pistoia si stava meglio, pian piano la vita riprendeva i suoi ritmi, erano state aperte delle sale da ballo e noi eravamo entusiasti della musica jazz, (…) dato che il Regime Fascista considerava il jazz un genere di musica degenere e quindi indegna di essere conosciuta dalla sana Gioventù del Littorio. Invece, la musica americana, con i suoi ritmi spesso sfrenati, con le sue danze e anche con le sue bellissime canzoni melodiche, segnò un’epoca e nel ricordo della mia generazione è strettamente legata alla fine dell’incubo della guerra scatenata dai Nazisti».
Per la consulenza storica si ringrazia Alessandro Baroncelli