di Carlo Rossetti
dicembre 2018
Parlare di Gino Ianda non è soltanto ricordare una persona nota, bensì rievocare un’epoca in cui il vivere quotidiano era costituito da un rapporto basato sull’onestà e sul senso di amicizia, valori che con il tempo hanno perso di significato.Tempi in cui Gino si dedicava alla vita locale, organizzando, specie a carnevale, corsi mascherati e veglioni presso il Circolo Maggini di Catena, in cui spiccavano i nomi di cantanti famosi, esponenti del canto all’italiana. Si faceva conto su di lui per le iniziative che sapeva portare a termine e per le idee sempre nuove e originali.
Una macelleria posta proprio all’incrocio di Catena, costituiva il sostentamento per sé e la sua famiglia. Ma proprio per il suo spirito imprenditoriale e di iniziativa, la macelleria cessò di essere tale e con l’aggiunta di altre stanze attigue divenne un ristorante. All’inizio il locale era semplice, senza particolari abbellimenti, dove però si mangiava bene perché il cibo era genuino, espressione della grande tradizione toscana. Fin dal primo momento divenne meta di una clientela affezionata. Con l’andare del tempo il locale assunse una maggiore importanza per la frequentazione di personaggi di un certo livello sia artistico che culturale. A contribuire in tal senso, fu l’amico Alfredo Fabbri, pittore, che divenne una presenza assidua del ristorante di Gino e al quale era riservato un tavolo che condivideva con l’amico Bino Masi, oculista di Prato. Anche l’aspetto estetico del ristorante ebbe una trasformazione per i numerosi disegni appesi alle pareti, in cui Alfredo aveva ritratto l’ambiente maremmano da cui proveniva e rappresentato momenti di caccia per far felice Gino, grandissimo appassionato di caccia e di pesca. Peccato che Alfredo per i suoi disegni avesse dato fondo alla scorta di tovaglioli del ristorante.
Gino, fra una portata e l’altra ai tavoli, non mancava mai di fermarsi al tavolo di Alfredo per una battuta, in attesa di sedersi anche lui a servizio ultimato, per mangiarsi in santa pace un piatto di succulente pappardelle. Il ristorante “La Bussola” poteva essere definito la “Trattoria de Trastevere de noantri”, tanto l’atmosfera ne evocava l’immagine. Con l’andare del tempo Gino, col proposito di soddisfare la sua clientela, cercò di affinare la cucina con ricette più nuove e ricercate. Successivamente è stato quello il terreno su cui Moreno, il figlio, una volta divenuto titolare, avrebbe puntato e continuato il percorso per acquistare un nome ben consolidato nel campo della ristorazione.
Verso gli anni Novanta Gino, non pago, crea un altro spazio al di là del torrente Stella, ove esiste un bel lago, il quale servirà per la pesca e per eventi e momenti di divertimento per i giovani. Si può dire che anche in questo caso avesse visto giusto. Nel 1978, per seguire la vocazione di locale, dove, oltre al cibo c’era spazio anche per lo spirito, Alfredo, Gino, il sottoscritto e altri amici frequentatori dettero vita al premio “La lunetta d’argento”, che consisteva nel premiare ogni anno colui che nel proprio ambito si era maggiormente distinto. La pergamena sulla quale venne scritto l’atto costitutivo, riportava fra l’altro “animati da spirito rinascimentale abbiamo deciso di riunire un gruppo di amici con lo scopo di ritrovarci e dare alimento non solo al corpo ma anche allo spirito”. Tanti sono i nomi del panorama letterario e artistico premiati nel corso degli anni, ma vogliamo ricordare soltanto, per dare la giusta importanza al premio nato quasi per gioco, che la prima attribuzione fu al Maestro Riccardo Muti. Intanto intorno al tavolo di Alfredo, capo carismatico, si era costituito un gruppo di amici di cui faceva parte Millo Giannini, chi scrive, naturalmente Gino che per l’occasione si riconosceva più nella veste di avventore che in quella di ristoratore e tanti altri.
Dopo che il grosso della clientela se n’era andato, Gino raggiungeva il tavolo lasciando le ultime cose da sbrigare alla moglie Rosalba, infaticabile collaboratrice e all’Iride presenza costante e silenziosa del ristorante. La conversazione era quanto mai leggera, soprattutto legata all’arte che, inevitabilmente la presenza d’Alfredo suggeriva. Non ricordiamo di avere mai assistito a una discussione di politica, non tanto per indifferenza verso problemi importanti, quanto piuttosto perché non avremmo saputo cosa dire. Non sempre il pretesto era di mangiare insieme, ma se Gino, cenando in ritardo come gli attori dopo lo spettacolo, sedendosi al nostro tavolo ci passava vicino con un piatto di squisite pappardelle sul fagiano, non ci restava che accogliere il suggerimento del nostro olfatto e passare all’ordinazione, anche se già avevamo cenato a casa. Quindi un mezzo bicchiere di rosso di Capezzana e a quel punto si cambiava registro. Sgombrata la sala dagli ultimi clienti, tolto il residuo delle cene dai tavoli, aveva inizio il consueto programma musicale. Presa una chitarra che era sempre a portata di mano e che nessuno sapeva suonare ma che serviva par dare la parvenza di un gruppo musicale e per il ritmo, si cantava tutto ciò che lì per lì veniva in mente. La forza del complesso era costituita dal fatto che eravamo esecutori e ascoltatori insieme, sicuri di soddisfarci nell’uno e nell’altro ruolo. I pezzi maggiormente eseguiti del repertorio, legati a una hit parade sentimentale, erano le canzoni napoletane seguite da immancabili arie tratte da celebri operette, adatti alle corde vocali di ognuno, precedentemente lubrificate con del buon vino.
Una sera, per la presenza di un vero chitarrista, dopo avere dato “asilo” a una bottiglia di Chianti, fummo improvvisamente ispirati dal folclore andaluso. Nacchere e chitarra e via col flamenco. A quel punto Gino, con un salto di cui lui non si rese conto, fu su un tavolo e improvvisò la tipica danza spagnola che se forse da un punto stilistico lasciava a desiderare, aveva una sua suggestione per il ticchettio de tacchi e per qualche azzeccato gesto plastico come la testa inclinata verso il basso, il volto tormentato e il collo “sottosterzo”. Se si considerano poi le lamentazioni, proprie del flamenco, che noi aggiungevamo alla danza come tante partorienti con le doglie, si può dire che l’impressione era quella di trovarsi in un qualsiasi locale caratteristico spagnolo. O forse sarà stato il vino a darci questa percezione.
Questo era Gino, con il gusto del gioco e dell’ironia, che faceva tutto sul serio ma con leggerezza. E’ anche per questo, per il lato del suo carattere un po’ scanzonato che ci piace ricordarlo.