di Massimo Cappelli
dicembre 2016
Quale sia il vero senso della vita, a cinquantotto anni suonati non l’ho ancora capito. Se però, come dicono, la vita è un gioco, sono sicuro che è un gioco di squadra, proprio come la pallavolo: chi è alla battuta, chi alza la palla, chi schiaccia e chi fa muro; chi perde e chi vince. La “partita” di Gioni Guidotti si concluse esattamente quarant’anni fa, il 14 novembre 1976, all’incrocio dei “Martiri”, dopo la discesa de la Màgia, proprio dove adesso c’è la grande rotonda e allora c’era ancora il semaforo. A cancellare la sua breve esistenza (il giorno del suo funerale sarebbe stato il suo diciassettesimo compleanno) fu una Giulia Alfa Romeo, che attraversò il semaforo lampeggiante a fortissima velocità, schiantandosi contro una Citroen Dyane con quattro giovani a bordo. Oltre a Gioni, in auto c’erano: Luciano Niccolai, Denis Peruzzi e Claudio Melani, che riportarono tutti ferite serie. I quattro ragazzi tornavano dalla sala da ballo Milleluci di Casalguidi, ed erano diretti al Tamburo della Luna di Quarrata, dove però, purtroppo, arrivò solo la notizia del tragico incidente. Accorrendo tutti in massa sul posto, dallo scenario che ci apparve davanti, ci rendemmo subito conto della grande disgrazia.
Quando viene a mancare qualcuno, soprattutto se in giovane età, la frase più usata è: vivrà sempre dentro di noi. In questo caso, forse complice la sintonia, il tutti per uno di chi gioca a pallavolo (sport frequentato dal gruppo più stretto degli amici di Gioni) dopo quarant’anni ci accorgiamo che è stato veramente così: il sorriso luminoso, la simpatia, il carnato olivastro e gli occhi scuri di questo ragazzo, sono ancora vivi nei ricordi di noi, oggi quasi sessantenni. «Sono tutti amici di Gioni», come ho sentito dire a Marisa, la sua mamma, in seguito alla recente scomparsa del marito Renato, commentando il via vai di gente in visita alla camera ardente. Qui di seguito, ecco come lo ricordano i suoi compagni di sventura di quella nefasta notte.
Luciano Niccolai, conducente della Dyane, che a causa dell’incidente ebbe gravi conseguenze e una temporanea infermità. «Sicuramente, ciò che mi salta subito in mente, è la sua giovialità. Eravamo un gruppo di amici senza grandi differenze di età fra noi, ma Gioni era semplicemente considerato “il piccino”; quello che, comunque, doveva essere sempre accontentato e che appunto usando la sua grande giovialità (rideva sempre) involontariamente ti obbligava sempre a fare ciò che lui voleva. Senza forzare, senza essere noioso o opprimente, era gioviale e scanzonato, era il mio amico Gioni».
Denis Peruzzi, ebbe la frattura di entrambe le mani e escoriazioni al volto dovute alla rottura del parabrezza. «Il ricordare pur dopo 40 anni mi gonfia e inumidisce gli occhi perché il tempo lenisce ma non cancella! Fra me e Gioni correva un mese, i suoi nonni Angiolino e Iolanda vivevano vicino a me, quindi noi ci frequentavamo già prima di diventare compagni di scuola, di sport, di vita. Ricordo le sue cotte: delle vere e proprie “randole” per la ragazza del momento e le decine di chilometri in perlustrazione con il suo “ciaino” per incontrarle e poi …andare dritto perché la sua (nostra) timidezza impediva di attaccare bottone. Ma il ricordo più vivo e bello è la sua risata: partiva come tutti dalla bocca ma poi si trasferiva a tutto il corpo facendolo contorcere come in un ballo. Mi sembra ancora di vederlo e di sentirlo quando portammo un nostro amico a prendere “caciolli” (i meno giovani sanno di cosa parlo) con le mani nell’acqua del fiume Stella si stese sull’argine, incapace di trattenersi, succube della sua risata e forse di quella esuberanza giovanile. Esuberanza che si spense quella sera maledetta. Ciao amico mio».
Claudio Melani, restò per lungo tempo in terra, vicino all’auto e accanto al corpo senza vita del suo amico, riportò una brutta frattura al gomito e ad un piede. «Gioni non si può ricordare che con tenerezza: la sua timidezza, per esempio, che però si trasformava in grande grinta durante le partite di pallavolo, il meglio si sé, comunque lo dava durante gli allenamenti facendo cose da giocatore professionista. Quel giorno era proprio il mio diciannovesimo compleanno, ricordo che quel 14 novembre, in prima serata, eravamo tutti al Tamburo della Luna, ma andammo al Milleluci di Casalguidi perché Gioni doveva vedere una ragazzina per la quale aveva preso una cottarella. La trovammo, avrebbe dovuto parlarle, ma a causa, appunto, della sua timidezza questo non avvenne, girava per la sala senza però prendere il coraggio di aprir bocca. Nel viaggio di ritorno verso il Tamburo accadde la grande disgrazia».
Questa è la prova che Gioni Guidotti è veramente vissuto dentro di noi, di noi che stiamo ancora “viaggiando” fra gioie, dolori, chili di troppo, capelli imbiancati o caduti. La verità è che per lui, da quel 14 novembre di quarant’anni fa, è passato solo un attimo, perché io credo che a confronto dell’eternità, quarant’anni, mille anni, un ora o un secondo, si riducono ad un solo attimo. Con in più il vantaggio (non da poco) che lui è rimasto sempre giovane e bello.