di Marco Bagnoli
settembre 2014
In una tempestosa mattinata di mezza estate ci siamo spinti fino a Montemagno per incontrare Giulio Burchietti. Giulio è un ragazzo del ’79, lavora al forno “Il menestrello” che gestisce assieme alla sorella Claudia, subito prima della salita che porta al lago di Santonuovo. Il nome di questo locale già ci dice molto di lui – “menestrello” era il nomignolo con cui era noto da bambino, dal momento che fin da piccolo era evidente la sua naturale inclinazione nel prediligere il centro dell’attenzione altrui. Infatti, proprio come quei musici che a partire dal XII secolo si faranno consueti presso le corti europee, Giulio bambino è una presenza gradita e canterina, e il mangianastri un ideale compagno di giochi. Tuttavia, verso i quattordici/quindici anni, il suo coinvolgimento pubblico sarà sostanzialmente muto e silenzioso, nei mutevoli panni del modello in passerella – poco più di un’apparenza esterna, anche se come molti suoi coetanei, Giulio condivide la passione per la musica in una band di amici. È in questo snodo di anni che inizia a sentire una distanza profonda tra sé e il mondo delle agenzie di spettacolo di queste sfilate: la musica diventa più importante e forse proprio per questo il fragile meccanismo di un gruppo di ragazzi smette di funzionare, lasciando ognuno per la sua strada. Giulio in questo periodo inizia a scrivere le sue prime canzoni, mentre impara a utilizzare il computer per la registrazione della sua musica e della sua voce. Le canzoni registrate bisogna però farle sentire – a quel popolo di produttori che sembrano più una spesa che un investimento; la svolta arriva da internet, che consente a un musicista indipendente di rendere pubblico il proprio lavoro gratuitamente, previa una quota annua versata al distributore digitale che si occupa di caricare la musica su circa 400 canali digitali europei – uno su tutti I-tunes.
Il primo album lo pubblica nel 2010, “I giardini degli angeli”, cui fanno seguito “Jeremiel”, del 2011 e “L’abbraccio e il sogno” del 2013. L’intenzione era di pubblicarne uno l’anno, come per rimettersi in pari sugli anni persi, eppure una pausa, ancora più perentoria di quella che poteva sembrare un blocco d’ispirazione, è segno che doveva arrivare: nel 2011, dopo una malattia lunga quindici anni, muore il babbo, e dopo aver segnato alcune canzoni di “Jeremiel”, che non a caso è il nome di un arcangelo, anche la motivazione di Giulio sembra giunta alla fine. Quello che segue è un percorso che lo porta a ridiscutere molte delle sue convinzioni profonde, passando per la filosofia junghiana, condizionamenti e pensieri autolimitanti – per arrivare a capire che forse è proprio la sofferenza del cammino a costituire il tesoro che alla fine senti di aver conquistato. Un momento rivelatore è un po’ allo stesso modo legato al caso, mentre Giulio è su internet a sbirciare qualche nuovo strumento musicale; proprio quando sente più distante la voglia di suonare i suoi strumenti, ecco apparire dal nulla il profilo di un flauto tradizionale dei nativi americani.
Non fu soltanto il suono di questi strumenti a rapirlo completamente, ma addirittura Giulio si ritrovò a disegnare e costruire questi flauti, senza la minima esperienza o interesse pregressi, in un momento nel quale era anche maggiore la necessità di distrarsi; oggi li realizza in diverse estensioni tonali e li vende. Allo stesso modo, un testo sugli angeli gli rivela che Jeremiel è appunto l’arcangelo designato ad agevolare – tra l’altro – il superamento del passato, quindi un’immagine sufficientemente forte per permeare di sé quantomeno l’album che ne porta il nome. Il caso volle che da allora, la presenza lieve di una piuma non abbia smesso di manifestarsi, nei luoghi e nei casi più disparati.