Hic potuit imperator

Hic potuit imperator

di Milva Maria Cappellini

settembre 2023

Crepuscolo novembrino, verso la fine del Novecento: nebbieggia basso intorno alla Villa, pesante di tanta grande storia che ha fatto sedimento, di tante storie piccole che l’hanno lambita appena. Attraversiamo il cancello tra le ombre dei lecci, così ben conosciute dai ragazzini che siamo stati. Ogni passo mi porta un ricordo che sembrava evaporato, ed era solo sfilacciato. La ghiaia del viale sotto le suole scricchiola piano. Scricchiolava così anche in tempo di guerra e di fame? Anche sotto gli zoccoli di una donna povera, trecciaiola, malmaritata, che per la vergogna aspettava, prima di tendere la mano e chiedere pane, di arrivare almeno al colle della Màgia, e lì di scantonare verso le cucine a testa bassa? Noi due invece scampanelliamo spavaldi all’entrata principale. 

Mi confondono, mentre scrivo in questo Duemila, gli andirivieni della memoria: chi aprì il portone? Un valletto in polpe? Un maggiordomo in smoking? O forse la contessa in persona, sorpresa – nell’incedere verso il salone d’onore, vestita per la cena, bei gioielli e una tripletta di cognomi – giustappunto nel vestibolo? Come fu il suo sorriso? Stupito dagli intrusi? Condiscendente verso gli importuni? L’accento oltreatlantico invece lo rammento, o me lo fingo: lene, arrotondato. «Mi spiace non potervi mostrare tutta la casa oggi, è il Thanksgiving day, ho invitato alcuni amici della colonia americana».

Ci fa strada tuttavia attraverso una schidionata di saloni: un pianoforte a coda, poi un canapè, poi un tavolo imbandito – lino bianco, fiori e frutti, lampi di cristalli e argenti – pronto al brindisi in onore dei Padri Pellegrini i quali, 367 anni prima, cenarono grati con piccioni e noci, a 3953 miglia lineari da qui. «Però immagino vogliate almeno vedere il secchio». Il secchio? La contessa si sofferma, solleva lo sguardo: una nicchia in angolo, una mensola di legno e sopra – più che un secchio – una secchia, una grossa coppa, un calice-bacile di metallo molto scuro, bronzo o rame, ossidato, ammaccato, leggermente sbilenco. Ma sotto, una targa di pietra, perentoria: Hic potuit imperator. Qui bevve Carlo V d’Asburgo: imperatore, arciduca, re di molti regni e continenti, principe sovrano; ospite, nel suo trentaseiesimo anno, dei signori Medici alla villa del Poggio a Caiano, per il matrimonio infruttuoso della figlia Margherita, bambina ma già Madama e destinata a lungo e vasto esercizio di potere, e di Alessandro primo Duca di Firenze, atteso invece da morte prematura e assai torbida. Si fermarono a riposare durante una caccia nel Barco, e l’imperatore lasciò che il primo a dissetarsi fosse il cavallo.

Usciamo, pure noi ringraziando; la contessa torna ai centrotavola e al tacchino, noi due alla ghiaia che ormai affonda nella prima belletta e non scrocchia più. So che nella brinata di un’alba di febbraio – un secolo, un decennio e un anno prima di questo vespro di novembre – la ghiaia del viale crepitava come vetro, sotto gli stivaletti di un’altra contessa che, stretta nella cappa e infreddolita, si avvicinava alla limonaia e si rivolgeva al sopracciò, mentre Antonio, tanto povero da non possedere neanche un cognome, senza alzare gli occhi ascoltava, per interposto interlocutore, la sentenza: «Digli pure che domani non torni, lo sa anche lui che braccianti sposati qui non ne vogliamo». Le statue di terracotta del portale sono quasi nere, color secchio imperiale. Noi due saliamo in macchina e ci allontaniamo nella bruma, con un cognome ciascuno, e nessuno dei due nemmeno lontanamente nobile.

Immagini in questo articolo. Tiziano: Ritratto di Carlo V a cavallo (1548). Marcello Scuffi: disegno di Villa La Màgia (1988), realizzato per la copertina del calendario di foto storiche di Quarrata.

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