di David Colzi. Foto: Archivio Museo Casa di Zela
settembre 2022
Non è possibile parlare della storia di Casini senza rammentare il lavoro del carbonaio, un mestiere che fino agli anni ’60, cioè fino al diffondersi delle cucine a gas, ha dato lavoro a tante persone e sfamato intere famiglia. Col termine “carbonaio” intendiamo colui che comprava la materia prima e poi la rivendeva; si trattava di un mestiere ingrato, faticoso, che veniva reso accettabile dall’uso di cavalli, unico conforto in un lavoro che spaccava la schiena. Per approvvigionarsi i carbonai erano costretti a spostarsi per molti chilometri, arrivando fino in Sardegna, rivendendo poi il combustibile, non solo nella piana, ma addirittura nel nord Italia, in città come Milano e Torino, dove c’erano tanti condomini da riscaldare. Chi partiva da Quarrata col barroccio verso nord, faceva regolarmente tappa a Bologna e poi a Reggio Emilia. E’ curioso notare come questo lavoro si diffuse in tutto Casini, rimanendo un fenomeno circoscritto a quella frazione, ed è altrettanto curioso notare come tanti ex carbonai, quando il settore non tirava più, si inserirono nel comparto della biancheria.
La cosa che più ci ha affascinato, ripercorrendo la storia di questo mestiere, è il venire a conoscenza dei trucchi usati per guadagnare qualcosa di più. Al riguardo, Ernesto Franchi, esperto di storia locale e responsabile del museo di Casa di Zela, precisa: «Va detto con onestà che per rimanere competitivi, soprattutto quando andavano nel nord Italia, erano costretti a rivendere il carbone al prezzo di acquisto, se non addirittura a meno. Quindi senza “aggiustamenti” sarebbero andati a rimessa». I trucchi per arrotondare erano quasi sempre gli stessi, al massimo prevedevano qualche variante. I più semplici consistevano nell’appesantire le balle, mettendo sul fondo sassi o terra, dopo averli anneriti con la fuliggine; addirittura, i più incoscienti inserivano gli scarti delle limature dei fabbri, il cosiddetto “ghisino”. Se invece si voleva fare una cosa più semplice, bastava bagnare il carbone. Il repertorio variava poi a seconda dei clienti e soprattutto in base al quantitativo da consegnare. Per esempio, se si doveva rifornire un condominio – quindi tanti sacchi – si usava il metodo “balla vuota dentro balla piena”. Il magheggio consisteva nel riempirne alcune sia con carbone che con balle vuote accuratamente ripiegate; poi si convinceva il cliente a pesarne solo due o tre per stabilire una media, dicendo che alla fine si sarebbero contati tutti i sacchi svuotati, in modo da risparmiare tempo. A questo punto bastava essere lesti, e una volta rovesciato il carbone, far scivolare fuori i vuoti. Così, magari, venivano consegnate 70 balle piene, ma alla fine se ne contavano 90. Ma l’estro – diciamo pure il genio – dei carbonai dei Casini si palesava quando volevano taroccare la pesatura. Questa operazione sarebbe risultata difficile con bilance normali, vista la loro esattezza; allora si procedeva a modificarle, magari alleggerendo i pesi che le controbilanciavano per la taratura, i cosiddetti “romani”. In questo modo un chilo diventava di 800 grammi e via di seguito. Ma come si faceva? Semplice: bastava trovare fabbri o carrai compiacenti che aprissero il peso, svuotassero parzialmente l’interno e poi lo richiudessero, così a prima vista sembrava tutto normale. Alcuni sono tutt’oggi conservati a Casa di Zela: «Al museo abbiamo pesi alleggeriti in varie percentuali» dice Ernesto Franchi «perché ciascuno veniva usato a seconda del quantitativo, in modo da rientrarci, ma senza esagerare. Possediamo persino una stadera donataci dalla moglie di un ex carbonaio alleggerita del 20%». Chi invece non disponeva di basculle “customizzate” e doveva quindi pesare la merce con le bilance a spalla, si arrangiava trattenendo col piede la balla, in modo che tirasse verso il basso, oppure con l’ausilio di una corda, sempre per spingerla verso terra, in modo da aumentarne il carico. Ovviamente questi rimedi necessitavano di diverse persone, poiché alcuni dovevano mettere in atto la truffa, mentre altri dovevano distrarre il cliente, con domande, complimenti, pacche sulle spalle.
A questo punto qualche lettore più giovane, potrebbe credere che si tratti di leggende metropolitane, o di malelingue; e invece no, basti pensare che alcuni di loro si ritrovavano in piazza a Quarrata e, facendo capannello, narravano le loro imprese senza tralasciare nessun particolare. Ma talvolta non filava tutto liscio. Sempre a Casa di Zela è conservato un ritaglio di giornale de La Nazione del 1941, cui si riporta che un carbonaio di ventanni di Tizzana, venne arrestato per frode in commercio mentre vendeva due balle ad un privato, in quanto: “affermava contenessero 97 chilogrammi di combustibile ciascuna mentre, in realtà, ne contenevano soltanto 77”. Tutto il carico fu requisito. Invece da Lucciano ci arriva una storia che dimostra, se ancora ce ne fosse bisogno, la scaltrezza di questi mercanti. Un giorno un carbonaio di Casini, vendette una balla di carbone ad un luccianese. Questi, una volta pagata, la rovesciò nel bidone di contenimento; vedendo scorrere il carbone notò subito che era troppo poco rispetto a quanto doveva pesare. A quel punto lo pesò, notando che mancavano circa 8 chili. Senza indugio partì di corsa per raggiungere il carbonaio che nel frattempo si era allontanato col carretto. Quando il malandrino vide avvicinarsi il cliente a passo svelto, come si usa dire, “mangiò la foglia”, e prima che questi iniziasse a sbraitare gli spiegò che si era accorto di avergli venduto un sacco alleggerito. Questo era successo perché mentre saliva per Lucciano aveva incontrato una signora che necessitava di poco carbone e quindi ne aveva tolto un po’ da un sacco per venderglielo. Comunque, assicurava il dritto, era sua intenzione finire il giro per poi tornare da lui e dargli l’ammanco. Touché.
D’altronde l’arte di arrangiarsi è propria del popolo di Casini e a volte ha raggiunto degli estremi incredibili. Chi ha i capelli grigi ricorderà che tante persone nate a cavallo tra Ottocento e Novecento non avevano il pollice della mano sinistra, perché se lo erano fatto tagliare; questo serviva loro ad evitare il fronte, in quanto quel tipo di mutilazione avrebbe impedito al futuro soldato di reggere la canna del moschetto. Per mettere in pratica l’operazione serviva un ceppo, una mannaia da macellaio posizionata sull’attaccatura del pollice, un martello, un amico connivente… e molto coraggio. Arrivati ad un certo punto erano così tanti i mutilati di pollice nella frazione che ci furono delle inchieste e qualcuno finì sotto processo. Non a caso, in giro per i comandi italiani, si era sparsa la voce che i ragazzi di Tizzana erano «autolesionisti», come ricordava spesso Andrea Rossetti, padre del nostro Carlo, che in trincea sul Carso c’era stato davvero.
Per la realizzazione di questo articol si ringrazia: Carlo Rossetti, Ernesto Franchi, Giacomo Pacini e Marcello Sali.