di Carlo Rossetti
settembre 2018
Chi ha frequentato la scuola elementare degli anni Trenta e Quaranta, ricorda come fosse l’istituzione scolastica d’allora e quale l’autoritarismo delle maestre.
L’insegnante aveva il potere assoluto sull’alunno, il quale doveva talvolta sottostare alla sua punizione per una qualche mancanza, che consisteva nel fargli mettere sulla cattedra le mani su cui batteva con il righello di legno. Le dita, gonfie e violacee in inverno a causa degli immancabili geloni, erano i punti di maggiore concentrazione dei colpi, gli effetti dei quali la maestra controllava con una lieve punta di sadismo, nell’espressione dolente dell’alunno. Il fanciullo, davanti, trattenendo a stento le lacrime, inviava alla maestra e alla scuola pensieri non proprio riferibili, non riuscendo a capire come mai dovesse essere oggetto di una punizione di così sottile violenza degna della Ghestapo. Era una pratica sistematica vigente in ogni scuola, da far pensare che fosse una direttiva ministeriale facente parte della riforma Gentile. Anche le orecchie rientravano nel campo d’azione della maestra. Un lobo arrossato dal freddo era quanto di meglio l’insegnante potesse desiderare per sfogare l’impulso del momento. Modelli pedagogici discutibili, se vogliamo, ma certo persuasivi.
Il peggio è che i genitori, presentandosi a scuola per conoscere il profitto del figlio, esortavano la maestra, quando lo avesse ritenuto opportuno, non soltanto a rimproverarlo, ma a lasciargli andare anche qualche scappellotto.
Andandosene rivolgevano alla maestra anche un perentorio «Mi raccomando», per essere sicuri dell’eventuale punizione. Se al bambino l’atteggiamento del padre gli sembrava fin dal principio impietoso, sperando di dover contare sul suo appoggio, l’esortazione alla maestra «Mi raccomando» lo smarriva, mentre un dubbio si impossessava di lui per la prima volta. «Sarà proprio mio padre, oppure un padre putativo?» Il ragazzo poteva star sicuro: all’occorrenza avrebbe avuto gli scappellotti suggeriti dal genitore. Ma non tutte le maestre erano così, intendiamoci.
Dunque una scuola ormai lontana da noi, che vive soltanto nel ricordo degli anziani, i quali, nonostante tutto, presi dalla nostalgia, esclamano: «Che tempi!»
Le cose naturalmente sono cambiate. Con i Decreti Delegati e la conseguente istituzione dei Consigli di classe e d’Istituto, un diverso rapporto fra scuola e famiglia conferisce all’istituzione uno spirito più democratico, anche se i problemi della scuola sono ancora tanti e di difficile soluzione. Però, come in tutti i cambiamenti, non è facile dosare gli effetti che ne conseguono. I genitori dovrebbero collaborare con la maestra nel compito delicato di educare e formare il loro figlio, per consentirgli una crescita intellettuale e morale che deriva dal sapere; ma molti non sanno che l’educazione e la maturazione deve iniziare prima di tutto in famiglia. Il più delle volte, per mancanza di tempo od altro, demandano alla scuola l’incarico, tanto, pensano in molti, le maestre sono pagate per questo da noi cittadini.
Invece, mentre a poco a poco l’insegnante ha perso quel potere assoluto e illegittimo che deteneva, un’autorità non sempre ben gestita e controllata è passata nelle mani dei genitori. Molti dei quali sono dei veri e propri antagonisti del docente e il più delle volte la loro collaborazione, se così si può chiamare, si manifesta attraverso severe critiche al corpo insegnante. Non è che non si possa mettere in discussione l’operato di una maestra o di una professoressa, ma sovente la critica è mossa senza avere idonei strumenti per farlo, semplicemente perché criticare è facile ed è un ottimo argomento di conversazione tra genitori.
Se spostiamo ai giorni d’oggi una situazione come quella citata all’inizio, cioè un colloquio tra genitore ed insegnante, l’incontro avrebbe, non diciamo sempre, ma spesso, uno sviluppo diverso.
Facciamo l’ipotesi di una madre che si rechi dalla maestra per conoscere l’andamento scolastico del figlio. Si presenta ben preparata, possibilmente con qualche firma in dosso e i tacchi alti, personale risarcimento alla mancanza d’altezza che la natura ha concesso a Carla Bruni e ad altre privilegiate, ma non a lei. E’ aperta, sorridente e signorile ed è accompagnata da una scia di Chanel n°5. Spera in cuor suo di ricevere una risposta soddisfacente, ma quando l’insegnante le riferisce che i voti in certe materie sono piuttosto scarsi e che il figlio ha difficoltà nell’apprendimento, le cose cominciano a cambiare. Ma il peggio è quando la maestra aggiunge che il ragazzo è distratto e molte volte distrae anche gli altri. La mamma, che fin dalle prime parole ha perso la baldanza iniziale, si sente punta nel vivo e non cerca di approfondire l’argomento per cercare di capire quali siano i problemi del figlio. Ritiene il giudizio affrettato e ingiusto e ha difficoltà ad andare avanti, a chiedere ancora delucidazioni.
Giudica la maestra colpevole del delitto di “lesa maestà” e mentre un lieve rossore va a miscelarsi con il fondo tinta delle gote, dice a mezza voce con malcelato disappunto: «Mah! sarà. Mi sembra quasi impossibile quello che lei mi dice. A casa il bambino studia con molta attenzione senza distrarsi. Che le devo dire? Sarà».
La mamma non riesce ad aggiungere altro tanto si sente sconfitta; vorrebbe proseguire ma non se la sente e non incoraggia neppure la maestra a proseguire, la quale capisce di avere toccato un tasto dolente. Quindi arretra un poco, staccandosi dalla cattedra, accenna a un lieve e tiepido saluto con la testa, poi gira le spalle e se ne va. Andandosene, quando nessuno la può più sentire, accantona l’aplomb iniziale e scende metaforicamente dai tacchi, lasciandosi andare a: «Quella maestra non capisce proprio un niente! Povero Gerard in che mani è caduto! Ma va a fan…» E raggiunge il suo Suv.