di David Colzi
dicembre 2019
Mauro Maiani è un signore di 89 anni, dotato di una mente lucidissima da far invidia a chi è molto più giovane di lui. Noi, sapendo di questo fatto, abbiamo deciso di interpellarlo per poter mettere nero su bianco i suoi ricordi di quand’era bambino e giovinetto, vissuti vicino alla villa del Corniolo a Tizzana, che sono inevitabilmente coincisi con la dittatura fascista, la guerra e poi la Liberazione. Alla nostra richiesta, Mauro si è prestato molto volentieri e con estrema facilità è tornato a quei giorni, rammentando fatti e luoghi, senza risparmiare i particolari più cruenti, in modo che, come dice lui: «I ragazzi di oggi sappiano cosa è successo e non gli venga in mente di far accadere di nuovo quelle tragedie». Noi seguiremo il filo dei suoi pensieri, racchiudendo i ricordi in piccoli capitoli, in modo da riportare più fedelmente possibile la nostra chiacchierata, così come è avvenuta in un pomeriggio di fine ottobre.
L’INFANZIA BALILLA
L’intruppamento dei giovani ad opera del regime di Mussolini è cosa nota. Mauro ricorda quando i fascisti vennero nella sua classe alle elementari, dicendo ai bambini di andare il giorno dopo alla Casa del Fascio per ritirare la loro divisa da “Balilla moschettiere”. L’indottrinamento prevedeva, fra le altre cose, il raduno del sabato sera per fare tutti insieme attività fisica. Una volta però, Mauro decise di non presentarsi perché non ne aveva voglia e i fascisti non la presero bene; infatti si presentarono a casa sua e lo purgarono con mezzo bicchiere di olio di ricino, il tutto accompagnato da qualche bastonata. Il bimbo aveva appena sette anni. «Da allora non mi scordai più di presentarmi alle adunate, anche controvoglia» ammette Mauro. Un altro episodio di quel periodo fu il “campeggio” nei prati vicino alla torre di Santalluccio, dove i bimbi si fecero tre notti all’addiaccio in tenda. Di giorno, oltre alle marce, i giovani balilla venivano “temprati” alla sopravvivenza, mandandoli a rubare le patate per avere qualcosa da mangiare.
L’OCCUPAZIONE TEDESCA E I MORTI
Sull’occupazione tedesca, Mauro ricorda due omicidi ad opera di nazisti e fascisti. Il primo, più tristemente noto e riportato negli annali, riguarda un partigiano pratese, Ruggero Tofani, che venne sorpreso in una casa del centro di Catena, da alcuni fascisti insieme alle SS, il 15 giugno 1944. Dopo essere stato torturato, Tofani venne giustiziato a colpi di mitra e il cadavere venne prima bruciato, poi impiccato fuori dalla finestra dell’abitazione, con il monito di lasciarlo appeso alcuni giorni come esempio per la popolazione. Le ricerche storiche però ci informano che i resti vennero rimossi di nascosto dopo poche ore e questo diede il via a rastrellamenti.Comunque sia andata, il signor Maiani ci dice di avere ancora davanti agli occhi quel cadavere martoriato che ormai non sembrava più neanche un essere umano.
Un altro fatto efferato, avvenne ai danni di un vicino di casa della famiglia Maiani, tale Quintilio Benelli. All’epoca questo signore era imboscato sul Montalbano, probabilmente all’interno di una cellula di partigiani improvvisati. Un giorno venne intercettato da una pattuglia tedesca a bordo di una moto-sidecar. I soldati lo interrogarono per fargli confessare la sua appartenenza, e dopo i primi dinieghi iniziarono a picchiarlo col calcio dei fucili. Poi, vedendo che si ostinava a negare, lo costrinsero a spogliarsi completamente, nel tentativo di trovargli addosso qualcosa di compromettente; e difatti, dentro una scarpa saltò fuori un fogliettino che lo identificava come partigiano. A quel punto lo finirono, ammazzandolo di botte. Il cadavere venne poi fatto rotolare dalla strada, che era leggermente rialzata, verso i campi sottostanti. Anche in quel caso venne intimato alla popolazione di lasciarlo esposto come monito: «Ricordo come fosse ieri, quel corpo nudo mangiato dalla mosche» dice un po’ emozionato Mauro.
Ma i morti non erano solo italiani e il nostro cronista rammenta di quando una postazione d’artiglieria tedesca, in zona Bavigliano, venne centrata dagli alleati in due diverse occasioni, uccidendo in tutto una decina di soldati. I cadaveri vennero sotterrati al cimitero di Santallemura, in una fossa comune, senza cassa, segnalati solo da croci di legno: «Le raffiche di mitra in aria del picchetto d’onore tedesco, le ho ancora nelle orecchie» riflette Mauro. E non appena i soldati lasciarono il cimitero, le croci vennero subito rubate, perché il legno era prezioso.
VIVERE IN TEMPO DI GUERRA
Per Mauro il cimitero fu una costante nel periodo della guerra, in quanto andava a dare una mano alla moglie del becchino di Santallemura, perché quest’ultimo, assieme ai figli più grandi, era imboscato sul Montalbano per paura dei rastrellamenti. L’aiuto che poteva dare un giovinetto ad una signora di mezz’età di allora era piuttosto scontato: contribuiva a scavare le fosse, aiutato dal figlio più piccolo della signora, Gualtiero, suo coetaneo. «Scavare a mano una fossa d’estate, con la terra dura come il cemento era davvero faticoso» ci dice Mauro. Di quel periodo ricorda con precisione di quando andavano tutti e tre all’ospedale Caselli per prelevare qualcuno dei pochi vecchietti che ancora vi risiedevano, dopo che lo stabile era stato abbandonato a causa della guerra. Senza cassa e con i vestiti rimediati all’ultimo momento, questi poveri nonnini venivano caricati sul barroccio (nel migliore dei casi avvolti in una coperta) e poi portati a Santallemura, dove era riservata per loro una misera fossa, profonda appena per contenere i corpi, perché una donna e due bambini, più di tanto non potevano fare.
IL RASTRELLAMENTO E LA FUGA
Un altro brutto episodio accadde al babbo di Mauro, Dante, ma per fortuna senza esiti tragici. Un giorno, mentre lavorava in un campo intento a fare covoni di fieno, vicino a dove oggi c’è la comunità di Emmaus, vide dall’alto della sua posizione l’arrivo di camion tedeschi alla chiesa di Santallemura, che in linea d’aria era vicinissima. Dante capì subito che si trattava di un rastrellamento e si rese anche conto che, essendo in una zona rialzata, era ben visibile. Preso alla sprovvista, pensò di nascondersi dentro un covone, aspettando che i soldati se ne fossero andati. Purtroppo questi avevano notato del movimento e due di loro salirono fino al campo e iniziarono a infilzare con le baionette tutti i covoni, sospettando che dentro ci fossero dei fuggitivi. Sentendoli avvicinare, Dante decise di uscire allo scoperto e di consegnarsi. Per sua fortuna (si fa per dire), quel rastrellamento non era finalizzato a spedire persone nei carri piombati, bensì a reclutare schiavi per un lavoro. Fra i catturati vi erano anche lo zio di Mauro, Piero, e il brigadiere dei carabinieri di Quarrata, dato che all’epoca l’Arma era stata sciolta dopo i fatti dell’8 settembre. Dante e gli altri vennero impiegati in un primo momento per scavare buche nei pressi della Màgia, vicino a grandi alberi, per permettere ai tedeschi di nascondere le munizioni d’artiglieria. Poi li spostarono a Pistoia, in un appezzamento pieno di piante. Il compito di questi schiavi era di tagliare tutte gli alberi, lasciando il tronco alto circa un metro da terra; questo avrebbe consentito ai tedeschi, da un lato di rallentare l’avanzata dei mezzi degli alleati, e dall’altro di renderli visibili dall’alto della collina, dove i nazisti erano intenzionati a ritirarsi. Il campo di lavori forzati era composto da una cinquantina di persone, divise a gruppi di sei/sette, ciascuno sorvegliato da una guardia armata.
Per Dante, Piero e il brigadiere, l’occasione di fuggire si presentò per caso, quando Mauro e sua mamma Marina andarono a far loro visita, durante la mezzora di pausa pranzo che quotidianamente era concessa ai “lavoratori”. In quel giorno i familiari di Dante si erano portati dietro un po’ di vivande per i loro cari e fra queste del vino, che venne offerto senza malizia anche alla guardia. Come avviene in certi racconti mitologici, il soldato, dopo un po’ di riluttanza, bevve mezzo bicchiere di rosso e questo bastò per assopirlo, complice anche il caldo torrido, così finì per addormentarsi all’ombra dell’albero dov’era di vedetta. Dopo un attimo di incertezza, il gruppo decise di darsi alla macchia, partendo uno per volta, verso il bosco vicino. Nelle settimane successive, Dante, temendo una retata, dormì sempre sul tetto della casa sopra un pagliericcio appoggiato al comignolo: «Perché le guardie instillavano la paura nei prigionieri» precisa Mauro «dicendogli che se fossero fuggiti dal lavoro forzato, loro sarebbero andati dalle famiglie d’origine per fucilare tutti, in quanto conoscevano il loro indirizzo. Per fortuna era tutta propaganda e nessun soldato tedesco venne mai a bussare alla nostra porta».
I CARRI ARMATI ALLEATI
Se gli chiediamo un ricordo immediato, senza pensarci su due volte, Mauro rammenta subito quando vide il primo carro armato inglese a Tizzana nel 1944, che naturalmente scatenò la curiosità dei ragazzi del luogo che mai avevano visto nulla di simile. Una volta capita la provenienza dei soldati, Mauro e un suo amico li informarono che all’ospedale Caselli vi era nascosta una famiglia inglese (quella del signor Adans, la cui vicenda è stata raccontata dal nostro Carlo Rossetti nell’articolo storico sul Caselli del 2010). La cosa curiosa è che, una volta giunti sul posto, ci fu un minimo di trattativa fra i soldati e i loro connazionali, perché quest’ultimi temevano che quella fosse una trappola per farli uscire allo scoperto e arrestarli.
Dopo quel primo incontro, arrivarono altri carri armati alla Villa del Corniolo dove si insediò un reparto di sudafricani. Fra quei ragazzi e la gente del luogo si stabilì subito un rapporto di amicizia, tanto che alcuni di loro andavano a mangiare dai Maiani la pasta fatta in casa di mamma Marina, anche perché non avevano una cucina da campo. Fra l’altro erano gli ospiti a portare la farina, e questo tornava utile ai Maiani, perché ne avanzava sempre un po’ e la si poteva mettere da parte. Attorno a questi nuovi “concittadini”, si affollavano quotidianamente i ragazzi che in cambio di qualche lavoretto guadagnavano generi alimentari, solitamente in scatola. Mauro rammenta ancora quando toglieva le munizioni dalle cassette di legno che poi venivano messe nelle mitragliatrici, oppure quando puliva il cannone dei carri armati.
GLI AMERICANI E LA GRAPPA
A Quarrata il comando degli americani era dislocato a Villa La Màgia e a Villa Costaglia, sostituendo quello provvisorio dei sudafricani a Tizzana. Mauro ci racconta che lui e i suoi amici si appostavano nei pressi dei cassonetti della Costaglia e, dopo che vi erano state svuotate le gavette dei soldati, si precipitavano a vedere se c’era rimasto qualche cosa di commestibile, tanta era la fame. Ma la povertà acuiva l’ingegno anche in altro modo e talvolta a farne le spese erano proprio i nostri salvatori. Infatti in quel periodo un bene di prima necessità erano le sigarette, perché rivendibili con grande facilità, e ad averle erano soprattutto gli americani. Così Mauro e i suoi amici pensarono bene di ingegnarsi in una truffa per ottenerle con un minimo sforzo. Presero delle bottiglie vuote e le riempirono d’acqua, versando in ognuna un piccolo quantitativo di grappa all’anice, dal sentore molto aromatico. Così si presentarono ai soldati d’istanza alla Màgia, stappando davanti ai loro queste “bottiglie pregiate” che emanavano un profumo inconfondibile. I soldati, è il caso di dirlo, “se la bevvero”, pagando una stecca di sigaretta per ogni bottiglia.
P.S. Forse per questo articolo ci siamo dilungati più del dovuto, ma era giusto raccontare queste cose, perché si capisca senza ambiguità, come si viveva dalle nostre parti quel periodo della nostra storia recente.